Il femminismo a orologeria di Ban Ki-moon

L’uguaglianza che narrazioni ideologiche, riduzionismi e forzature negano ancora e sempre alle donne

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Last updated on Luglio 29th, 2021 at 02:27 am

Si sarebbe dovuto tenere l’anno scorso, 25 anni dopo la storica Conferenza mondiale delle donne di Pechino, voluta dalle Nazioni Unite nel 1955, il Generation Equality Forum (GEF) di Parigi slittato invece a giugno di quest’anno a causa della pandemia. E proprio il CoViD-19 ha «esacerbato le diseguaglianze esistenti per le donne e le ragazze in molti modi: dalla salute e dall’economia, alla sicurezza e alla protezione sociale», secondo le parole affidate alle pagine del quotidiano spagnolo El País da Ban Ki-moon, ex Segretario generale dell’ONU e oggi vicepresidente di The Elders, la lobby d’élite per la pace, la giustizia e i diritti umani, fondata nel 2007 dal presidente sudafricano Nelson Mandela (1918-2013).

Si sarebbe infatti fatta troppa poca strada dalla dichiarazione finale della Conferenza di Pechino in cui i governi dei Paesi partecipanti si impegnarono «a far progredire gli obiettivi di uguaglianza, sviluppo e pace per tutte le donne, in qualsiasi luogo e nell’interesse dell’umanità intera, al fine di sostenere ulteriormente il progresso e l’empowerment per le donne di tutto il mondo», concordando «nel ritenere che questo richieda misure urgenti in uno spirito di determinazione, speranza, cooperazione e solidarietà, che nel prossimo secolo ci farà avanzare».

Come sottolinea ancora Ban Ki-moon, «le disuguaglianze persistenti che sono state ancora una volta così vividamente esposte dalla pandemia mostrano quanti progressi debbano essere ancora fatti». Quando era Segretario generale dell’ONU il leader coreano fondò appositamente UN Women, un’agenzia incaricata di affrontare le discriminazioni e di promuovere l’uguaglianza di genere. «La mia infanzia», racconta Ban Ki-moon, «è stata segnata dalla guerra di Corea, quando la mia famiglia è stata sradicata dal villaggio in cui abitavamo e ho visto come le donne hanno dovuto raccogliere i cocci per ricostruire mentre gli uomini erano chiamati a combattere. […] Sono orgoglioso di definirmi femminista. Ma sono costernato dal fatto che tanti altri uomini, compresi quelli in posizione di potere e di responsabilità, rimangano bloccati dentro mentalità sessiste e misogine, e, con le loro azioni e inazioni, continuino a opprimere e a denigrare le donne sia nella sfera pubblica sia in quella privata».

Femminista, e costernato: due aggettivi che descrivono alla perfezione anche il direttore di «iFamNews», e con lui tutta la redazione. Siamo femministi, anzitutto perché del femminismo raccontiamo la verità, e perché conosciamo le conseguenze della rivoluzione sessuale. Siamo femministi anche perché condividiamo la battaglia contro l’«identità di genere», «arma brandita contro le donne» tanto da avere spinto il direttore esecutivo proprio di UN Woman ad annunciare che l’agenzia non si sarebbe più concentrata sui diritti delle donne, ma piuttosto sull’uguaglianza «di tutti i generi», utilizzando a questo fine il budget annuale di quasi 1 miliardo di dollari statunitensi. Proprio per questo siamo anche costernati, anzitutto nel constatare che la stampa italiana ha dato spazio pressoché insignificante all’evento di Parigi, forse perché concentrata nel dibattito sul «testo unico Zan», che con il femminismo poco va d’accordo.

Costernati per la mancanza di riferimenti, quando si parla di diritti delle donne, a tutte quelle situazioni in cui il maschio, in questo caso sì, veramente tossico, usa violenza contro le donne, negando lo specifico femmineo, appropriandosi delle caratteristiche precipue del femminile, arrivando persino a ribaltare la narrazione per definire lo stupro perpetrato da un maschio trans come il gesto di una «donna stupratrice». La richiesta di trasferimento in carceri femminili da parte di detenuti che «si identificano» come donne, per citare solo un esempio, sta infatti diventando un evento niente affatto sporadico.

Perciò siamo ancora più costernati, leggendo che tra gli «ambiti prioritari» del GEF di Parigi vi sono la prevenzione e il contrasto alla «violenza di genere», la promozione dell’empowerment economico, lo sviluppo di politiche femministe sul cambiamento climatico e il miglioramento della salute delle donne, ovviamente compresa la «salute» e i «diritti sessuali e riproduttivi». Sappiamo benissimo che dietro l’espressione «diritti sessuali e riproduttivi» si nasconde lo spettro dell’aborto come «diritto umano», senza che nemmeno venga presa in considerazione la verità del dramma di una pratica che uccide le donne. Costernati perché nessun riferimento c’è al riduzionismo della donna, vera piaga della narrazione contemporanea, che svilisce la femminilità nei suoi tratti distintivi, in un mondo in cui anche il linguaggio si deve piegare ai tabù della religione gender-inclusive. Non una parola infine sulle pratiche ormonali e chirurgiche perpetrate su bambini e adolescenti, oramai delirio generale, ma vera e propria violenza gender sui minori.

E mentre si invoca l’empowerment economico, affinché le donne possano dedicarsi al lavoro liberandosi dei “pesanti fardelli” della maternità, secondo percorsi determinati dall’alto cronicamente debitori di una narrazione ideologica del reale, per le atlete donne non c’è alcuno spazio di discussione: stiano zitte, mentre atleti trans scippano loro posti, e vittorie.

Esistono, e le conosciamo, altre vie per celebrare davvero la Donna. Anzitutto –  e sono ancora parole di Ban Ki-moon –  nel ruolo di madre, «vitale per lo sviluppo sano dei bambini». «Nel nostro mondo in continuo cambiamento ci troviamo ad affrontare sfide molteplici, ma un elemento rimane costante: l’importanza imperitura delle madri e il contributo inestimabile che esse danno alla generazione del futuro»: sono queste le parole da cui occorre ripartire.

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