Last updated on Febbraio 19th, 2020 at 03:05 am
Inutile tergiversare, il maschio tossico esiste, ed è sempre esistito. Va rilevato però che il concetto non è stato “inventato” proprio negli ultimi anni, nonostante l’espressione «toxic masculinity» sia recente. Il maschio tossico ha una lunghissima storia, e lo testimoniano le molteplici rappresentazioni iconografiche e letterarie che vengono alla mente non appena venga “smascherato”: altri non è che l’orco, l’Uruk-hai – detto anche “uomo nero”, oppure “babau” nella versione fanciullesca, o più semplicemente “mostro”.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, anche se c’è chi sta facendo confusione, definendo la mascolinità tossica «l’insieme degli stereotipi che definiscono l’uomo come essere dominante nella società», come afferma la Repubblica in un articolo dedicato all’«uomo nuovo che rivendica la libertà di essere fragile». Dove sta il misunderstanding? Il concetto di mascolinità tossica è stato teorizzato tra gli anni 1980-1990 dallo psicologo americano Shepherd Bliss per «distinguere i tratti negativi degli uomini da quelli positivi», in riferimento a «comportamenti offensivi e nocivi e atteggiamenti che vengono comunemente associati agli uomini», i quali spesso sfociano in azioni violente, aggressive, molto spesso a sfondo sessuale. Se il professor Bliss operava un distinguo, dunque, tra i tratti negativi e quelli positivi della mascolinità, chi oggi usa la definizione da lui coniata sembra additare tutte le caratteristiche tradizionali dell’essere “maschio” come inevitabilmente negative, da evitare.
Basta scorrere le foto dei modelli di Gucci presentati all’ultima collezione per rendersi conto che il «qualcosa di diverso» (per altro già visto) ha il fine di rendere l’uomo “nuovo” un mix tra una bimbetta dell’asilo e la nonna che fa l’uncinetto. Il “virile” viene totalmente rigettato, fino alla massima provocazione: la t-shirt che mostra “orgogliosamente” la scritta «impotente». Contro il veleno della mascolinità tossica è proposto l’antidoto del maschio fragile, non virile: l’eunuco.
L’uomo virile resta e combatte gli orchi
Eppure, l’uomo “virile” è altro dall’uomo violento, prepotente e aggressivo. L’uomo virile è l’eroe: uomo di eccezionale virtù e coraggio, capace di affrontare qualsiasi pericolo fino al sacrificio di sé, non per costrizione, ma per abnegazione. Lungi dall’essere impotente, l’uomo vero è quello che gli orchi li combatte. Non per niente il famoso spot della Gilette, acclamato come esempio di «nuova definizione della mascolinità», propone immagini de «il meglio di un uomo» mostrando per l’appunto gesti di virilità: giovani che impediscono il pestaggio di un ragazzino, padri che educano i propri figli, uomini che difendono donne da attenzioni sgradevoli. Esattamente quello che ci si aspetta da un uomo vero: che non stia fermo in un angolo, ma che intervenga nel momento in cui vede un orco in azione.
Allora cosa spinge, oggigiorno, a prendere orchi ed eroi e gettarli insieme nel tritarifiuti? Tocca ancora scomodare Alasdair MacIntyre: nella sua critica all’aristotelico megalopsychos – l’uomo autosufficiente, che si vergogna dei benefici ricevuti – , il filosofo scozzese indica nella mancanza delle «virtù della dipendenza riconosciuta» l’origine del fraintendimento per cui tutto ciò che è “fragile” e “bisognoso” debba essere considerato femminile, e dunque imbarazzante per un “maschio”. Immaginandosi “autosufficiente”, l’uomo stravolge le proprie caratteristiche di “forza”, “intraprendenza”, “potenza” e le applica a fini negativi che sempre sfociano in una violenta affermazione di sé.
Anche gli orchi meritano la salvezza
Piuttosto, è proprio il riconoscimento della dipendenza, sperimentata all’inizio della propria esistenza, durante la malattia e nella vecchiaia, a spronare il maschio virile all’eroismo: di fronte alla calata degli orchi, l’uomo vero prende le armi e difende anziani, donne e bambini. Non anzitutto perché più deboli, ma perché più preziosi: dagli anziani dipende la trasmissione della cultura, dalle donne la cura e la crescita del popolo, dai bambini il futuro.
Nessuno vieta all’uomo virile di provare paura (se non la provasse, nemmeno potrebbe superarla mostrando il suo coraggio), o preoccupazione, di sentirsi inadeguato o in difficoltà. La differenza “di genere” se mai, sta nella modalità di espressione della fragilità: «I maschi non parlano con i maschi dei problemi da maschi. Noi ci diamo… una bella pacca sulla spalla», spiega il mammut Manny ne L’era glaciale 3. L’alba dei dinosauri. «Per un maschio corrisponde a sei mesi di psicoterapia».
Ecco dunque la “cura”, la difesa contro la maschile tossicità, come insegna la scrittrice fantasy Silvana de Mari: «Gli orchi si fermano militarmente, e dopo essere stati fermati, e dopo essere stati battuti, solo allora, gli orchi potranno essere salvati». Già: anche gli orchi, anche i maschi tossici, meritano di essere salvati, meritano qualcuno che spieghi loro il valore delle “virtù femminili”, le «virtù della dipendenza», in una complementarietà che esalta entrambe i ruoli (maschili e femminili) in vista del bene comune e della perfezione del singolo.
D’altra parte, lo diceva già Julia Roberts in Pretty Woman: che succede dopo che l’eroe ha salvato la principessa? Semplice, che «lei salva lui».
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