Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:36 pm
Forse non è immediato pensare alla statistica quando si concentra l’attenzione sull’erosione degli spazi femminili, siano essi fisici o mentali o altro, imposta, se si vuole, dal cosiddetto “maschio tossico”, benché oggi ormai prevalentemente da un certo tipo di mentalità legata al mondo LGBT+. Invece è importante farlo, poiché talune statistiche sono dati e strumenti che la politica usa per legiferare, per governare, per gestire la cosa pubblica in un modo invece che in un altro. Tracciano la rotta, insomma. E per la gente comune sono ottimi sondaggi gratis.
È il caso, per uscire dalla teoria e volgersi alla pratica, di quanto potrebbe accadere in Scozia, come raccontato da The Times, ripreso in Italia dal sito Feminist Post, e denunciato dalle femministe scozzesi. Una persona biologicamente uomo che commettesse uno stupro, potrebbe essere registrata dalla polizia e in seguito dai tribunali come donna, in base al concetto di identità di genere e di self-id, entrando così nella statistica come «donna stupratrice». Nessuna necessità di registrare il sesso biologico, anzi, meglio non farlo, per non specificate «ragioni di privacy».
Si parte dal presupposto che si possa parlare di stupro in caso di penetrazione, che necessita pertanto di un corpo maschile, benché in assoluto non sia possibile escludere che la violenza avvenga tramite un membro costruito chirurgicamente.
Ma il corto circuito logico si farebbe ancora più ardito: se in tali statistiche una persona con corpo maschile ma identità di genere femminile è registrata come donna, una persona il cui sesso biologico fosse femminile, ma divenuta transessuale sino alla trasformazione del proprio corpo in un corpo maschile, sarebbe pertanto registrata come uomo?
Pura speculazione, in quanto il secondo caso non ricorre nelle statistiche di cui si parlava.
Ricorrono invece nella realtà dei fatti e non solo sulla carta alcuni casi del primo tipo, come testimonia per esempio il caso di «Nataly» Monge Brenes, di cui «iFamNews» ha già avuto occasione di raccontare.
E come testimonia pure Amie Ichicawa, fondatrice dell’organizzazione non profit Woman II Woman, che rappresenta 1300 detenute ed ex-detenute della California che si dicono evidentemente turbate e sconvolte dalla presenza di persone con genitali maschili nelle carceri femminili statunitensi, negli spazi di condivisione comuni, nei bagni e nelle docce.
La Ichicawa definisce le detenute donne come le ultime degli ultimi, evidenziando come spesso provengano già da una storia di violenza e di abusi, e che avrebbero il diritto nel momento in cui scontano la giusta pena di essere protette mentre rischiano invece di trovarsi esposte, inermi, agli assalti di un sex offender, reale o potenziale. Se è vero, come è vero, che sono quasi 300 i detenuti californiani che chiedono di essere trasferiti in un carcere femminile in base alla propria autopercezione e come già ha evidenziato il caso del Canada, dove questo tipo di politica ha comportato un peggioramento sensibile nella vita delle detenute. Fermo restando il diritto assoluto di tutti a sentirsi tutelati e rispettati.
Tutela e rispetto che, però, non passano attraverso la negazione e la manipolazione della realtà: né la realtà dei fatti, né quella dei numeri e delle statistiche, che la realtà sintetizzano e raccontano.
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