Last updated on Luglio 8th, 2021 at 05:54 am
«Si raccomanda che la valutazione clinica della donna effettuata abitualmente durante la gravidanza, dopo il parto e dopo IVG dagli operatori del percorso nascita e delle cure primarie includa la valutazione dello stato di salute mentale».
Questa indicazione non sembra così difficile. O meglio, per l’Istituto superiore di Sanità (ISS) che ha pubblicato il Primo Rapporto ItOSS. Sorveglianza mortalità materna, pare che effettuare una valutazione clinica sulla donna che richiede un aborto volontario, che sia chirurgico o farmacologico, sia semplice.
Se prendiamo una qualsiasi donna che si reca in un consultorio italiano, e le diciamo di attendere il proprio turno per chiedere il certificato per interrompere la gravidanza, quello che potremo vedere sarebbe una delle scene seguenti: adolescenti in compagnia delle amiche, adolescenti accompagnate dalla madre, giovani donne che chiacchierano del più e del meno, donne più mature che hanno fretta di ottenere il “foglio di via”. Per ognuno di questi casi, dai cinque ai sette minuti con un operatore sanitario distratto che ha da finire il turno di lavoro.
Le donne che vogliono abortire, in Italia, lo fanno. Anche la relazione al Parlamento più recente rileva che i reparti di ostetricia e ginecologia nel nostro Paese sono 558 e i punti per effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) sono 362, quindi «Si conferma, anche per l’anno 2018, l’adeguata copertura della rete di offerta». Nessuna donna non ha abortito, anche durante il lockdown. Tuttavia, nel 2019, 18 di queste donne che hanno avuto il «diritto» di abortire si sono tolte la vita, riporta di nuovo il Primo Rapporto ItOSS, a pagina 52. Perché?
Semplice: perché nessuno o pochissimi operatori sanitari, tra quelli che distribuiscono certificati per IVG, ha desiderio, interesse, capacità per sapere che di fronte ha una donna che sì ha maturato la “necessità” d’interrompere la gravidanza, ma ha una fragilità psichica. E per avere una fragilità psichica basta aver assunto psicofarmaci per qualche tempo o aver avuto bisogno di un supporto psicologico: quindi siamo in tante. Tuttavia essendo un tabù, quello di ammettere di aver avuto bisogno di aiuto, e magari trovandosi con la “necessità” di abortire urgentemente, la donna tace. E quando una donna tace, spesso sta morendo dentro.
L’aborto è una procedura sterile dal punto di vista umano e dal punto di vista pratico. La donna è lasciata libera, ovvero sola, e le viene – di fatto – mentito. Le si dice che quella procedura è suo diritto sceglierla, ma non si indaga mai cosa ci sia dietro a tale ipotesi di scelta: un marito violento? Un compagno irresponsabile? Una famiglia coercitiva? Un’immaturità dovuta a mancanza di educazione all’assunzione di responsabilità?
Se l’Istituto Superiore di Sanità dovesse assumersi l’onere di compiere un lavoro completo, dovrebbe assolvere a quello che è scritto nel Primo Rapporto ItOSS: «I risultati dello studio confermano che il suicidio è una causa importante di mortalità materna in Italia. […] Nonostante i frequenti contatti che le donne hanno con i servizi e i professionisti sanitari in occasione della gravidanza e nel periodo perinatale, questi disturbi, spesso gravi, non vengono riconosciuti dai professionisti che assistono il percorso nascita e non risultano nelle cartelle ostetriche. Al fine di prevenire il suicidio materno è pertanto raccomandata una valutazione di routine della storia presente e passata per problemi di salute mentale della donna durante la gravidanza, dopo il parto, prima e dopo una IVG e dopo un aborto spontaneo, oltre a una migliore comunicazione e continuità delle cure tra servizi per la maternità e per le IVG, servizi per la salute mentale, medicina generale e pediatria di libera scelta».
Facendolo, però, bisognerebbe pure ammettere che il cosiddetto «tabù dell’aborto» non riguarda le donne che anche pubblicamente affermano che è stato quasi salutare interrompere la gravidanza, come fa la signora Alice Merlo, volto e parole della campagna pro-aborto dell’UAAR, Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Coinvolgerebbe invece tutte quelle donne che hanno abortito, e la cui vita va avanti. Sono le madri, le mogli, le figlie, le compagne, le donne che magari pensavano di essersi liberate di un problema, ma poi iniziano a soffrire: magari dopo sei mesi, un anno, un decennio.
Costoro non hanno un grammo di voce in capitolo in quanto le femministe, sia quelle che si definiscono radicali sia quelle pro-gender, non danno voce a questa parte dell’universo femminile. Non possono farlo altrimenti comincerebbe a scricchiolare tutto. Perché le donne hanno il diritto di abortire, ma non hanno il diritto di soffrire dopo averlo fatto. Se questo avvenisse, in effetti, ci sarebbe un’interrogazione parlamentare sull’argomento. In un anno,18 donne s’impiccano o si gettano nel vuoto dopo un’IVG e nessuno dice nulla: strano, vero?
Quelle sono le classiche donne di serie B: quelle che non sono riuscite a vivere dopo aver liberamente attuato un cosiddetto «diritto», ma che non devono avere voce, altrimenti si evincerebbe la misoginia più bieca. Se l’ISS dovesse attivare tutte le procedure prescritte nel documento citato, il Servizio sanitario dovrebbe redigere un consenso informato molto più accurato, dovrebbe consentire una formazione più completa e scevra da pregiudizi alle ostetriche, dovrebbe attivare ambulatori di salute mentale specifici sul post-aborto e il castello crollerebbe.
L’aborto uccide le donne. E lo fa in modo subdolo: armando le loro mani contro loro stesse. Chi lo nega, è complice.
Per approfondire il tema:
Mario Palmaro, Aborto & 194. Fenomenologia di una legge ingiusta, Sugarco, Milano 2008
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