Last updated on Novembre 3rd, 2020 at 02:03 pm
Avevamo trepidato, in aprile, quando il parlamento polacco aveva calendarizzato la discussione di un disegno di legge che avrebbe reso l’interruzione volontaria di gravidanza impraticabile in tutto il Paese. Avevamo visto giusto, nonostante la delusione per la mancata approvazione, mettendoci «in attesa della Polonia vera». Ecco infatti adesso il risveglio della Polonia, al suono della voce dei non nati: la Corte costituzionale di Varsavia ha infatti vietato l’interruzione di gravidanza anche in caso di malformazioni del feto, dichiarando la norma incostituzionale perché contraria a tre articoli della legge fondamentale del Paese sulla protezione della vita umana (Art. 38), sul rispetto e la tutela della dignità umana (Art. 30) e sulla discriminazione (Art. 32). Il presidente della Corte costituzionale, Julia Przylębska, ha dichiarato che una legge che «legalizzi le pratiche eugenetiche nel campo del diritto alla vita di un nascituro e renda il diritto alla vita del nascituro dipendente dalla sua salute […] è incoerente […] con la Costituzione» polacca. Maria Kurowska, parlamentare di Polonia Unita, partito della coalizione di governo, esprime soddisfazione per la decisione presa, affermando che «non si può uccidere un bambino perché malato» nonostante nella realtà “moderna” , in cui il «favor mortis» avanza deciso verso scenari di spartana memoria, pochi condividano.
Non esistono vite non degne di essere vissute
In Polonia circa il 98% delle interruzioni volontarie di gravidanza era motivato proprio dalle condizioni di salute del feto e la legge vigente lascia ancora spazio per i casi di stupro, incesto o grave rischio di vita per la madre. Senza imporre il martirio, che non può essere decretato per legge, la Polonia afferma dunque ora con forza che la vita è il primo valore da difendere: ogni vita, indipendentemente dalle caratteristiche che porta, perché non esistono vite non degne di essere vissute. Così ha affermato anche monsignor Stanisław Gądecki, presidente della Conferenza episcopale polacca, secondo il quale «ogni persona di coscienza retta si rende conto di quanto sia una barbarie inaudita negare il diritto alla vita ad una persona, soprattutto a causa delle sue malattie» aggiungendo che i bambini e le famiglie che si trovano in tali condizioni devono essere «circondati da una gentilezza speciale e da un’attenzione reale da parte dello Stato, della società e della Chiesa».
Il vero dramma delle famiglie che hanno figli con patologie e malformazioni è infatti, come ha dichiarato il presidente di Pro Vita e Famiglia, Toni Brandi, «la mancanza di sostegno da parte dello Stato, la carenza di servizi che aiutino nella gestione della vita quotidiana e l’esclusione sociale di tutto il nucleo familiare, sempre più emarginato e relegato ai confini della società […] ogni famiglia aiutata è un bambino salvato».
La coerenza della Polonia, la coerenza degli abortisti (infanticidi)
Non si contano, ovviamente, le reazioni “scandalizzate”, a partire dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, la bosniaca Dunja Mijatović, secondo la quale questa «è una giornata triste per i diritti delle donne». Grzergorz Schetyna, ex leader del Partito popolare europeo, è arrivato a preconizzare la Polonia come «un inferno per le donne». Non fanno mancare la propria voce Amnesty International, il Centro per i diritti riproduttivi e Human Rights Watch, che, attraverso una dichiarazione congiunta, giudicano la sentenza come «il risultato di un attacco sistematico e coordinato dei parlamentari polacchi ai diritti delle donne, il cui obiettivo è di vietare del tutto l’aborto nel paese. Al contrario, costringe le donne ad abortire clandestinamente o a viaggiare all’estero per poter abortire».
Né cambiano tattica gli abortisti, barricandosi dietro fantomatici numeri di aborti clandestini, in una cieca visione secondo cui l’unico modo per affrontare la maternità fragile sia la massima facilitazione dell’eliminazione del “prodotto del concepimento”. D’altra parte si è già ampiamente dimostrato come abbiano ragione loro, gli abortisti, quando affermano – teoricamente o nei fatti – che tra aborto e infanticidio non c’è differenza: un feto e un neonato sono lo stesso medesimo individuo, in momenti diversi del proprio sviluppo.
Vi sono Paesi, come la Nuova Zelanda, che hanno decretato la pena di morte anche per i neonati sopravvissuti all’interruzione volontaria di gravidanza, possibile fino al nono mese di gestazione, legalizzando così di fatto l’infanticidio. È coerente: non c’è motivo per cui una vita acquisti valore solo grazie al passaggio attraverso il canale del parto.
Allo stesso modo è coerente la repubblica di Polonia, che nella propria Costituzione «garantisce, sul suo territorio, la piena tutela della vita, della libertà e dei beni a tutti, senza distinzione di nazionalità, appartenenza, lingua, razza e religione». Nel lontano 1921, a quanto pare, non era parso necessario aggiungere la dicitura “età gestazionale”.
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