La famiglia come «best practice»

C’è bisogno di mamma e papà per capire che la vera indipendenza è la dipendenza che sviluppa, esalta, libera. Lo spiega perfettamente e laicamente la filosofia

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Last updated on Agosto 12th, 2021 at 11:03 am

Nel secolo III Diogene Laerzio (180-240), storico della Grecia Antica, scrisse Vita dei filosofi – una delle fonti principali per la storia della filosofia greca – con la convinzione che la ricerca filosofica, e le conclusioni cui essa conduce, producano novità concrete nelle vite quotidiane di chi di filosofia si occupa, con riferimento particolare alle concezioni della natura del bene umano, che guidano l’agire.

Ne è fortemente convinto il filosofo scozzese Alasdayr MacIntyre, come spiega nella biografia intellettuale, da lui personalmente curata, della filosofia e mistica tedesca Edith Stein (1891-1942), Edith Stein, un prologo filosofico. Agli studi del filosofo scozzese sulla razionalità pratica l’International Society for MacIntyrean Enquiry ha peraltro dedicato il proprio 14° convegno annuale.

Famiglia, luogo di indipendenza razionale e di dipendenza riconosciuta

MacIntyre scrive di famiglia in diversi testi, sia nei classici della sua produzione, come Dopo la virtù e Animali razionali dipendenti, sia nei testi più recenti, come Ethics in the Conflicts of Modernity, a breve anche in italiano.

Il filosofo spiega come diventare animali razionali indipendenti non sia una abilità innata per l’uomo, bensì un risultato dipendente dal contributo essenziale che altri danno alla vita del soggetto. Con quella formula, che dà appunto il titolo anche a un suo classico, egli intende del resto esseri capaci di riconoscere una differenza tra i giudizi che esprimono o che ne veicolano i desideri e i giudizi che riguardano quanto è meglio per sé, “liberando” i criteri dell’agire dalla schiavitù degli istinti e dalle reazioni irrazionali.

Ora, nella famiglia «il bambino supera il suo iniziale stato animale che consiste nell’avere ragioni per agire in un modo piuttosto che in un altro, per passare a quella condizione specificatamente umana di essere capace di valutare tali ragioni, di rivederle o di abbandonarle per sostituirle con altre». Un bambino impara a operare questa distinzione «venendo a contatto con altri che l’applicano a lui, prima che egli sia in grado di applicarla a se stesso». Accade quando la mamma, per esempio, limita l’assunzione di bevande zuccherine che, pur deliziando immediatamente il palato, producono a lungo termine conseguenze negative per l’organismo del bambino stesso.

L’uomo è cioè “indipendente” dalle proprie passioni e dai propri istinti nella misura in cui sa scegliere, tra le differenti “ragioni per agire” che gli si presentano in una data circostanza, quelle che sono dirette al bene. L’esercizio della razionalità pratica permette insomma di riconoscere, e dunque di mettere in atto, le azioni dirette al conseguimento del bene vero che consentono di condurre una vita buona, preferendole alle azioni in grado di generare un soddisfacimento particolare istantaneo quanto effimero.

Nell’imparare questo agire, e nel perseguirlo una volta guadagnatane la capacità, tanto ci si rende indipendenti dall’istintività quanto ci si riconosce dipendenti anzitutto da coloro da cui proviene l’insegnamento, impartito con l’esempio ed esercitato attraverso la pratica, a vincere l’istintività. Del resto si continua poi a dipendere dalla necessità di un contesto comunitario che accompagni e che sostenga le virtù, cioè «l’acquisizione di una inclinazione a quel bene che è incarnato nella nostra pratica di ogni giorno».

La pratica delle virtù: necessaria per educare

Nell’ambito dell’accudimento familiare, «lo sviluppo del bambino verso una condizione nella quale egli sa prendere le distanze dai propri desideri e valutarli coincide in maniera determinante con una prolungata formazione di quelle disposizioni che sono le virtù», quelle stesse virtù che chi accudisce ed educa il bambino necessariamente deve possedere onde poterle trasmettere.

Quali sono dunque le virtù che padri e madri devono possedere «per offrire il giusto ambiente di sicurezza e il tipo corretto di riconoscimento nelle loro risposte?». MacIntyre è chiaro: in primo luogo, è necessario che i genitori facciano «di questo bambino l’oggetto della loro cura continuata e del loro impegno, proprio perché si tratta del loro bambino, per il quale e del quale essi sono responsabili in maniera del tutto peculiare». È emergenza, filosofica, cioè culturale,  quella di un Paese che continui a suggerire che l’accudimento dei figli è un peso da cui sgravare le donne per imporre alle famiglie un cambio di paradigma calato dall’alto.

In secondo luogo, continua il filosofo, l’impegno dei genitori non deve porre condizione alcuna, esprimendo una dedizione del tipo «comunque vada io sarò lì per te». Non è la performance, che sia scolastica o sportiva o di qualsiasi altro genere, a definire lo sguardo dei genitori sui propri figli.

E in ultimo, non certo per importanza, per i genitori «sono i bisogni del bambino e non i loro propri bisogni in relazione al bambino che devono essere prima di tutto presi in considerazione». È arrivato a suggerirlo addirittura una sindacalista, parlando di congedi e di permessi parentali, lo chiedono a gran voce le ostetriche, almeno quelle che fanno sul serio il loro lavoro, e lo ribadiscono i bioeticisti, quelli veri: «il figlio non è né prodotto né proprietà dei genitori. Il primo dovere è dunque rispettare il bambino come persona fin dal primo istante della sua esistenza». Concepimento compreso.

In ragione di ciò, le famiglie sono «costituenti fondamentali e indispensabili della comunità locale», l’educazione della famiglia è cruciale per lo sviluppo della razionalità pratica, delle comunità e per il fiorire dell’umanità.

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