Last updated on Febbraio 15th, 2020 at 12:19 am
In coincidenza con la memoria liturgica della Madonna di Lourdes, l’11 febbraio la Chiesa Cattolica celebra la Giornata Mondiale del Malato (quest’anno la XXVIII), istituita nel 1992 da Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) affinché sia l’«occasione per crescere nell’atteggiamento di ascolto, di riflessione e di impegno fattivo di fronte al grande mistero del dolore e della malattia». Ora, la sofferenza non riguarda certo solo i credenti, bensì l’umanità intera, «segnata dai limiti della condizione mortale», e universali sono, scrive il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre in Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù (2014), i temi «della vulnerabilità e della disabilità che pervadono la vita umana, nella prima infanzia, nella vecchiaia e nel corso di quei periodi in cui noi siamo sofferenti o fisicamente o mentalmente malati, e del limite imposto di conseguenza dalla nostra dipendenza dagli altri».
Perché, si chiede MacIntyre, «[…] è importante che i filosofi morali prestino attenzione alla vulnerabilità umana e alla disabilità?». Non è certo una domanda astratta: il filosofo morale non discetta infatti di iperuranio, ma si interroga sulla virtù, avendo come fine una “buona pratica”, cioè “la vita buona”. Eppure, «[…] nei libri di filosofia morale, il disabile è sempre un altro, qualcuno di diverso da noi, un genere a se stante, quale noi mai siamo stati», preso in considerazione al massimo come possibile oggetto di benevolenza morale, da parte di soggetti – ovviamente – perfettamente sani e razionali. Per MacIntyre, invece, l’esperienza umana del limite risulta necessaria «per vivere bene e giustifica il rispetto della propria e altrui esistenza, anche in situazioni di estremo disagio, che renderebbero ipotizzabile la soppressione di una vita, sulla base del semplice calcolo dei costi e dei benefici», come per esempio spiega, nella presentazione al testo citato, Marco D’Avenia, il curatore dell’edizione italiana.
La malattia insegna le virtù della dipendenza riconosciuta
Chi vive una condizione di malattia, o di disabilità, non è dunque un mero oggetto dell’agire altrui, ma piuttosto qualcuno in grado di insegnare qualcosa: la fragilità nasconde in sé la chiave per riconoscere il vero rapporto con gli altri esseri umani e con la realtà tutta. Questa consapevolezza, osserva MacIntyre, permette di capire «come agire nei confronti di chi è dipendente, che cosa può insegnarci chi è malato e perché rispettare chi si trova in una situazione che potrebbe un giorno essere la mia» così da coniugare le «virtù dell’indipendenza razionale» (attraverso cui orientare la propria vita al di sopra delle pulsioni istintive) con le «virtù della dipendenza riconosciuta», che insegnano a essere «soggetti agli altri e più in generale alla realtà nel suo complesso». L’uomo, cioè, è costretto a riconoscere l’indisponibilità della realtà a piegarsi ai suoi voleri e ai suoi capricci: non basta formulare un desiderio – o, meglio, esprimere una preferenza – per affermare il proprio diritto a che questa preferenza venga soddisfatta. La realtà non è qualcosa da piegare ai propri scopi, ma una condizione da riconoscere come data, e perciò impossibile da aggirare o da sfuggire.
Il contesto culturale odierno, invece, vuole allontanare la sofferenza, fino alla decisione di espungerla completamente interrompendo esistenze segnate dalla disabilità o dalla malattia, viene addirittura considerato un gesto “pietoso”, compiuto nel “miglior interesse” di chi soffre e dei suoi cari. Ma MacIntyre ribalta completamente questa visione, suggerendo come l’esperienza del limite sia una condizione che è necessario affrontare e con cui fare i conti proprio per raggiungere “una vita buona”.
La considerazione ha conseguenze importanti a livello sociale: la creazione di comunità caratterizzate da «reti di dare ed avere che, informate dalle virtù, conducono alla realizzazione del proprio vivere bene che coincide con il vivere bene in comune».
Quanto il filosofo abbia ragione lo dimostra per esempio Paolo Palumbo, giovanissimo malato di SLA che ha portato un canzone, Io sono Paolo, nientemeno che al Festival di Sanremo. Cosa fa un malato cronico sul palco più famoso d’Italia, in una edizione, per altro, segnata da mille contraddizioni e polemiche prima ancora di iniziare? La presenza dignitosa, composta ed efficace di questo giovane ha mostrato al (foltissimo) pubblico del Festival, cioè all’Italia intera, quello che tutti vanno cercando: la speranza che sia possibile non arrendersi nemmeno di fronte a una malattia impietosa e spaventosa. Che la vita può continuare a essere ricca, piena, soddisfacente – non soltanto “dignitosa” – pur dentro una condizione che nessuno si augurerebbe mai. Il sincero riconoscimento da parte di Paolo della propria dipendenza («ho un fratello che mi presta braccia e gambe e non mi lascia mai da solo») non sfocia nella disperazione, nel senso di inutilità o nella sopraffazione del limite. Anzi, «per volare mi bastano gli occhi […] ho guidato un drone nel cielo, ho parlato al G8 e ora canto a Sanremo». Proprio come afferma MacIntyre, è il più debole, il più fragile, il più dipendente a insegnare agli altri, “ai sani”: «non me la sento proprio di lasciarmi andare perché se esiste una speranza ci voglio provare».
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