Y., così è indicata la persona transgender negli atti della prima sezione della Corte europea per i diritti umani, ha 52 anni, è nata in Polonia, vive in Francia, ha effettuato la «transizione» per il cambio di sesso qualificandosi da quel momento in poi come uomo e nel 1993 ha sposato, secondo la normativa d’Oltralpe, una donna francese con cui ha avuto una figlia nel 2001. Ora Y. è in procinto di richiedere la cittadinanza del Paese d’elezione e di adottare un bambino.
Nel 1992, dopo l’intervento chirurgico finalizzato al cambiamento di sesso Y. aveva ottenuto dal proprio Paese un certificato di nascita in forma abbreviata, utilizzato comunemente per qualsiasi atto burocratico e amministrativo, che riportava esplicitamente la sua nuova identità maschile e che le aveva permesso, infatti, di contrarre matrimonio qualificandosi come “marito”.
Nel 2011, Y. ha richiesto alle autorità polacche un nuovo certificato di nascita, questa volta in forma completa, ugualmente aggiornato per riflettere la sua identità maschile, che però è stato negato. Varsavia ha affermato infatti che il certificato in forma “lunga” è una registrazione della nascita così come effettivamente avvenuta e che la maggior parte dei paesi europei non altera i documenti di nascita originari, quando una persona si sottoponga a un intervento chirurgico di riassegnazione di sesso. Il certificato in forma abbreviata è usato molto più comunemente per l’identificazione e la documentazione, mentre la versione più lunga costituisce principalmente un atto civile.
Y. a questo punto ha presentato un ricorso a Strasburgo contro la decisione polacca, che pochi giorni fa è stato però respinto dalla Corte, la quale si è schierata con Varsavia ritenendo che la sua politica di non rilasciare nuovi certificati di nascita completi, dopo che una persona abbia subito un intervento chirurgico di riassegnazione di sesso, non sia in alcun modo discriminatoria.
La prima sezione del tribunale ha concordato con la Polonia, concludendo che il Paese ha «[…] il diritto di mantenere registri di nascita accurati e il rifiuto di modificare la versione in formato lungo non ha avuto un impatto significativo sulla vita dell’uomo [sic]». Inoltre, ha scritto la giuria, composta da sette giudici, «il ricorrente non ha dimostrato di aver subito conseguenze negative o difficoltà sufficientemente gravi derivanti dal fatto che il sesso assegnato alla nascita sia ancora visibile sotto forma di annotazione sul certificato di nascita completo». Infine, «la corte ha sottolineato che sia il suo certificato di matrimonio sia il certificato di nascita di sua figlia riflettevano la sua identità maschile». Cosa si potrebbe pretendere, dunque, di più?