In Liberia, scrive il media network di informazione online AfricaNews, «realizzato da africani per un’Africa in crescita», l’aborto «[…] è soggetto attualmente a rigide restrizioni». In base alla normativa vigente, esso infatti «[…] è permesso», continua AfricaNews, «solo nei casi di stupro, incesto, anormalità fetale, pericolo per la vita della madre o rischio per la sua salute fisica o psichica». Ovvero, virtualmente, è concesso sempre, sino a 12 settimane di vita del bambino nel grembo materno.
Ma, come si è spesso notato, ai promotori della «cultura di morte» che un certo Occidente ambisce a quanto pare a esportare in Africa, questo non basta. In Liberia, infatti, il legislatore è all’opera per disporre un disegno di legge che mira ad ampliare l’accesso all’aborto, sempre contrabbandato come «salute sessuale e riproduttiva» e ammantato del rischio del ricorso all’aborto clandestino, «pericoloso» per la salute, affermano. Come se l’aborto, in ogni caso, non uccidesse sempre almeno una persona, il nascituro, e come se non fosse già stato evidenziato da studi assolutamente autorevoli che i numeri delle morti materne a causa della cessazione di gravidanza «non sicura» sono ampiamente mistificati e gonfiati, come ha riconosciuto anche il quotidiano britannico The Telegraph.
Il 13 giugno una commissione mista del Senato ha iniziato a discutere la proposta, avanzata dal presidente della commissione per la Salute nel Senato, Augustine Chea. Una volta conclusi i lavori in commissione, il testo dovrà essere sottoposto al voto delle due Camere del Parlamento e infine, se adottato, promulgato dal presidente, l’ex calciatore e ora uomo politico George Weah.
Dopo i casi analoghi della Namibia e del Benin, l’esempio del Kenya, che questa primavera a suon di sentenze ha stabilito che «[…] l’assistenza all’aborto è un diritto fondamentale ai sensi della Costituzione», purtroppo, non rappresenta un precedente per cui convenga essere ottimisti.
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