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Difendere la vita in Namibia è bollato di apartheid

Laggiù il contrasto all’aborto è una legge che è un resto di un mondo con valori diversi e qualcuno cerca di cancellarla

Barbara Santambrogio di Barbara Santambrogio
08/11/2021
in In evidenza, Vita
796
Reading Time: 4 mins read
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Donna con bambino in fascia sulle spalle, in Namibia

Image from Pixabay

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Last updated on Novembre 12th, 2021 at 10:02 am

La Repubblica della Namibia è un Paese dell’Africa meridionale scarsamente popolato. Con 2 milioni e 700mila abitanti, cioè 3,3 persone ogni chilometro quadrato, si pone al secondo posto nel mondo per minore densità della popolazione. La sua superficie è del resto occupata per gran parte dal deserto del Namib e del Kalahari.

Il tasso di crescita namibiano si attesta comunque per l’anno 2020 attorno al 2%, come per il Congo, il Senegal, l’Egitto. Ma anche come l’Arabia Saudita e il Lussemburgo, per dire. Certo, in tal caso cambia sostanzialmente il reddito pro capite.

È fra gli Stati più giovani del continente africano: colonia dell’impero tedesco con il nome di Deutsch-Südwestafrika fra il 1884 e il 1919, parte dell’Unione Sudafricana sotto la Corona britannica sino al 1961, è stata successivamente provincia della Repubblica Sudafricana sino all’indipendenza, ottenuta nel 1990.

Proprio un retaggio dell’epoca sudafricana è la legge tuttora in vigore che regolamenta l’accesso all’aborto nel Paese, l’Abortion and sterilization act 2 of 1975 (RSA), abrogato invece nel 1996 in Sudafrica, che ammette il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza nel caso in cui vi sia un pericolo per la salute fisica e/o mentale della madre, nel caso in cui vi sia il rischio per il nascituro di una disabilità grave e irreversibile, nel caso in cui la gravidanza sia la conseguenza di stupro o incesto. Ce n’è più che a sufficienza, anzi fin troppo.

Pare invece di no, se, per esempio, nel 2015-2016 HEARD, un’organizzazione di ricerca applicata affiliata all’Università di KwaZulu-Natal, in Sudafrica, sfruttando l’argomentazione consueta dei rischi che derivano dall’«unsafe abortion», diffondeva studi e opuscoli lamentando che l’aborto «on demand», considerato alla stregua di un diritto umano, non fosse prontamente disponibile nel Paese africano.

Pare di no anche oggi, dal momento che, alla fine di ottobre, il governo namibiano ha tenuto una consultazione sull’Abortion Act, sollecitata in aula e sui social dal viceministro della sanità e dei servizi sociali Esther Muinjangue, dall’avvocato per i diritti umani e consigliere speciale per l’Africa presso le Nazioni Unite Bience Gawanas, e dai gruppi di attivisti favorevoli all’interruzione volontaria di gravidanza, come SheDecides e Voices for Choices and Rights Coalition (VCRC).

La legge vigente è considerata assolutamente troppo restrittiva e durante le udienze pubbliche il direttore esecutivo del ministero della Salute e dei servizi sociali Ben Nangombe, trasmesso sul sito web del quotidiano Namibian Sun e rilanciato sul profilo Twitter, ha dichiarato che il dipartimento «ritiene che l’attuale legislazione sull’aborto sia obsoleta e che debba essere rivista e che sia necessario emanare  una nuova normativa che recepisca e parli alle realtà sul campo». 

La questione è raccontata approfonditamente in un articolo di The Telegraph del 2 novembre, che sottolinea inoltre che «[…] tuttavia, la modifica della legislazione potrebbe essere ancora lontana almeno un anno. Al dibattito nazionale seguiranno le udienze pubbliche regionali sull’aborto, al termine delle quali verrà redatta una relazione e presentata al parlamento», dispiaciuto a quanto sembra che la norma non vada a gambe all’aria lì e ora.

Il Telegraph pare infatti appoggiare le voci di chi nel Paese si è lasciato andare a un lungo applauso quando, il mese scorso, il Benin ha approvato la legalizzazione dell’aborto.

Soprattutto, il quotidiano britannico avalla l’opinione di chi considera la legge attuale namibiana un residuo del patriarcato, della religione e dell’apartheid.

Già, l’apartheid, se, scrive sempre l’autrice dell’articolo, Sarah Newey, «L’Abortion and Sterilization Act del 1975, dicono gli storici, è stato introdotto per impedire alle donne bianche di porre fine alle gravidanze, in mezzo all’isteria che la popolazione nera le superasse in numero». 

Umano ed evidente che, accostata, accomunata, implicata, compromessa con una politica tragica di segregazione razziale ai danni di popolazioni intere una legge, qualsiasi legge, risulti non solo pessima, ma addirittura esecranda. Il che però non toglie che esecrando sarebbe un ampliamento dell’accesso all’aborto, addirittura l’aborto elettivo “on demand”, che oltre a non risarcire chi dell’apartheid sia stato vittima, violerebbe invece un diritto inalienabile, intoccabile, non negoziabile, cioè il diritto alla vita.

Ndiilokelwa Nthengwe, co-fondatore dell’organizzazione sedicente pro choice Voices for Choices and Rights Coalition, dichiara al Telegraph che «Lentamente, stiamo decolonizzando ed eliminando i resti dell’apartheid dalla nostra Costituzione… per realizzare veramente una società equa e giusta per tutti i namibiani. […] Significa che, finalmente, stiamo affrontando leggi istituzionali che sono state, per anni, utilizzate per opprimere donne, ragazze adolescenti e persone non conformi al genere».  Una “società equa e giusta” per tutti i namibiani: tutti, a esclusione dei bambini nel ventre materno. Niente giustizia né equità, per loro.

Tags: AbortoHighlightNamibiaVetrina
Barbara Santambrogio

Barbara Santambrogio

Dopo un percorso lavorativo originale e variegato, nel campo della pubblicità e dell’editoria, ma anche nel mondo enologico, è approdata finalmente a occuparsi di quanto più la appassiona. Oggi scrive (per il web, ma non solo), si occupa di traduzioni e insegna nella scuola primaria. Mamma biologica e adottiva, ama leggere e il running.

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