Colonizzare un Paese, nel senso deteriore del termine, non significa soltanto imporre il proprio predominio e depredare le sue ricchezze materiali. Significa anche, e soprattutto, privarlo della sua cultura e dei suoi giovani. Anche dei giovani che debbono ancora venire al mondo.
È ciò che sta accadendo, oggi, in Africa, in particolare in Kenya, dove la «cultura di morte» diffusa in Europa e negli Stati Uniti d’America, che non si accontenta di mietere vittime in patria, cerca in tutti i modi di esportare l’aborto a ogni latitudine.
L’Alta Corte di Malindi, alla fine di marzo, ha emesso una sentenza in base alla quale «l’assistenza all’aborto è un diritto fondamentale ai sensi della Costituzione del Kenya e […] gli arresti arbitrari e il perseguimento di pazienti e operatori sanitari per aver cercato o offerto tali servizi sono illegali».
Come si legge sul sito web del portale d’informazione kenyota K24, «il giudice dell’Alta Corte Rebeun Nyakundi ha osservato che la protezione dell’accesso all’aborto ha un impatto sui valori costituzionali vitali tra cui la dignità, l’autonomia, l’uguaglianza e l’integrità fisica e che la criminalizzazione dell’aborto ai sensi del Codice penale, senza un quadro statutario costituzionale, è una violazione dei diritti riproduttivi delle donne».
Dal punto di vista giuridico, si evidenzia in Kenya un disallineamento fra il Codice penale, che risale al 1963 e che «criminalizza tutte le cure per l’aborto», e la Costituzione, emanata nel 2010, che garantisce il diritto all’assistenza sanitaria, compreso l’accesso ai cosiddetti «servizi di salute riproduttiva». Il giudice Nyakundi ha quindi imposto al parlamento di «emanare una legge sull’aborto e un quadro di politiche pubbliche in linea con la Costituzione».
La Costituzione del Kenya ammette l’aborto in caso di pericolo per la salute o la vita della madre, affermando però che «ogni persona ha diritto alla vita» e che «il diritto alla vita ha inizio dal concepimento». Ciò che accade, in realtà, è che il Paese è da tempo il bersaglio di una propaganda abortista lautamente finanziata dall’Amministrazione Biden, che fin dall’inizio del mandato ha abrogato la Protecting Life in Global Health Assistance Policy (PLGHA) del presidente Donald J. Trump e ha ripreso a sovvenzionare con i denari dei contribuenti statunitensi le ONG che si occupano di gestire il “giro” degli aborti nei Paesi esteri.
In Kenya, in particolare, è attiva l’organizzazione pro-aborto MSI Reproductive Choices, alias Marie Stopes International, che sfrutta il pretesto di combattere gli aborti clandestini e promuove i cosiddetti, famigerati «diritti sessuali e riproduttivi».
Come afferma un importante rapporto del Family Research Council (FRC), che mette a confronto la legislazione sull’aborto degli Stati Uniti con quelle vigenti nel resto del mondo, di cui «iFamNews» si è già occupato nello specifico, «il Kenya è un esempio rappresentativo di molti Paesi africani in cui l’aborto non è culturalmente accettato, ma il governo ha comunque subito pressioni per allentare le restrizioni, per non rischiare di perdere gli aiuti umanitari di cui ha bisogno da parte delle Nazioni Unite o di potenti organizzazioni non governative».
«Il denaro è una risorsa limitata», continua il rapporto, «e i finanziamenti per l’aborto distolgono i fondi dal budget destinato all’acqua pulita, alla reale assistenza sanitaria e all’istruzione. Gli Stati hanno il diritto di emanare leggi che proteggano la vita, e le organizzazioni paternalistiche, ideologiche e colonialiste non dovrebbero esigere una legislazione che consenta l’aborto in cambio dell’aiuto materiale, tanto necessario».
La conclusione della sezione riservata al Kenya del rapporto FRC è lapidaria e illuminante, laddove afferma che «l’aborto non è ciò che le donne africane vogliono o di cui hanno bisogno; in effetti esso è antitetico alle tradizioni culturali e alle convinzioni morali di molte donne africane». L’aborto non lo vogliono, punto.
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