Last updated on Febbraio 11th, 2022 at 02:46 am
Le leve su cui il pensiero mainstream politicamente corretto agisce per promuovere e per sponsorizzare ogni mezzo utile a rendere l’aborto volontario immediatamente e facilmente fruibile, anzi un vero e proprio diritto umano, di solito, sono due. Nei Paesi più sviluppati ed economicamente fortunati sfrutta i casi limite, commoventi, anzi strazianti: quelli per esempio di ragazzine giovanissime, quasi bambine, magari addirittura disabili, vittime di stupro e/o incesto. Tali situazioni esistono, purtroppo, ma si tratta per l’appunto di casi limite, laddove i dati relativi al ricorso all’aborto, per esempio in Italia, raccontano realtà del tutto diverse.
Nelle zone del pianeta meno fortunate invece, dove la fame e le condizioni igieniche precarie mietono di per sé vittime innumerevoli, il medesimo pensiero usa biecamente un altro dato, quello della mortalità materna, difficilmente verificabile in maniera scientifica e incontrovertibile per mille ragioni di natura economica e sociale.
Questo secondo caso si riscontra da quanto emerge da un articolo apparso su The Telegraph in febbraio specificamente dedicato allo Stato del Malawi, nell’Africa sud-orientale, articolo oggi contestato dalla pubblicazione di uno studio analitico, sottoposto a peer-review accurata, sull’International Journal of Environmental Research and Public Health (IJERPH).
Le morti per “aborto di strada” secondo The Telegraph
L’articolo del Telegraph parla, con toni e accenti altamente drammatici, di migliaia di donne, precisamente 12mila ogni anno, morte «come galline», a causa degli «aborti di strada», intendendo con tali parole evidentemente gli aborti clandestini, cui le donne del Paese si rivolgerebbero in gran numero a causa della legislazione del Malawi sull’interruzione volontaria della gravidanza, che è possibile solo in caso di pericolo di vita per la madre. Il quotidiano britannico afferma che «[…] una recente ricerca del Malawi College of Medicine stima che ogni anno si verificano più di 141mila aborti di strada e non sicuri, inclusi 12mila decessi correlati» e lamenta inoltre lo scarso ricorso ai metodi contraccettivi “moderni” da parte della popolazione rurale.
Il Telegraph prosegue affermando che «[…] nel 2017, la commissione per la legge sul Malawi ha redatto un disegno di legge sulla cessazione della gravidanza per riformare l’attuale legge antiaborto e includere disposizioni per l’aborto legale in caso di stupro e incesto. Ma negli anni successivi lo slancio attorno ai cambiamenti proposti si è bloccato, in parte a causa della forte opposizione dei responsabili della Chiesa, che associano l’aborto all’omicidio».
In realtà, più di recente, ulteriori tentativi di legalizzare l’aborto sono falliti, poiché all’inizio di quest’anno il parlamento ha respinto all’unanimità una proposta di legge in proposito e un disegno di legge successivo è stato addirittura ritirato dagli stessi promotori.
La risposta della ricerca
Lo studio riportato sull’IJERPH e che contesta tale rappresentazione della realtà dell’aborto in Malawi è firmato da Calum Miller, medico, laureato nella Oxford Medical School nel 2015, ricercatore associato in Bioetica e Filosofia della religione nell’Università di Oxford.
Ebbene, Miller parte da un assunto fondamentale e assolutamente “laico”, cioè che «è importante che venga effettuata una valutazione accurata della mortalità materna da aborto non sicuro, per una serie di ragioni». Continua poi il dottore: «In primo luogo, aiuterà a dare priorità all’allocazione delle risorse al fine di ridurre il più possibile la mortalità materna. In secondo luogo, informerà i dibattiti politici riguardanti lo status legale dell’aborto: se molte meno donne muoiono per aborto pericoloso di quanto generalmente suggerito, e se le prove che la legalizzazione dell’aborto impedirebbe queste morti sono scarse, allora l’argomento per legalizzare l’aborto sulla base della mortalità materna è corrispondentemente indebolita». Altrettanto importante, poi, notare che la questione non interesserebbe soltanto il caso del Malawi, Paese prevalentemente rurale e a basso reddito, ma che «gli stessi argomenti di entrambe le parti si applicano a gran parte del mondo in via di sviluppo». Quantomeno a gran parte dell’Africa, insomma.
Il suo studio giunge a una conclusione precisa, e cioè che «mentre è incontrovertibile che alcune donne muoiono ogni anno per aborto illegale indotto, questo articolo dimostra che le ultime prove mostrano che il numero è molto inferiore a quello comunemente affermato».
Il dottor Miller scrive le proprie conclusioni dopo aver fornito un’informazione di grande rilevanza, quando afferma che il problema forse principale nella stima dei decessi per aborto non sicuro è che «[…] nelle statistiche sulla mortalità, “aborto” si riferisce quasi invariabilmente sia all’aborto indotto che all’aborto spontaneo (e talvolta anche alla gravidanza ectopica)».
Tutto ciò in zone in cui i gravi problemi sociali, economici e infrastrutturali evidenziano come le cause della mortalità materna siano da attribuire a tre fattori di ritardo: nel decidere di cercare assistenza da parte della donna; nel raggiungere la struttura sanitaria; infine, nel ricevere le cure necessarie.
Dati alla mano, Miller rigetta la tesi proposta dall’articolo del Telegraph evidenziando che nei Paesi in cui l’aborto non è stato depenalizzato (come la Polonia o il Cile nel momento in cui la ricerca è stata condotta) la mortalità materna è ugualmente diminuita, grazie a un aborto pur illegale condotto in condizioni di maggiore sicurezza per la vita della donna e a cure post-aborto migliori, specialmente per quanto concerne l’aborto farmacologico.
In altri Paesi, quali per esempio il Ruanda e l’Etiopia, la liberalizzazione della legge sull’interruzione di gravidanza ha visto piuttosto un aumento della percentuale di morti materne dovute all’aborto.
Le conclusioni
Le ricerca di Calum Miller si conclude con queste parole: «[…] le ultime prove suggeriscono che il 6-7% delle morti materne – quindi circa 69-147 all’anno a seconda della stima delle morti materne totali – in Malawi sono dovute ad aborto e aborto spontaneo combinati. La stima più recente della mortalità materna suggerisce l’estremità inferiore di questo intervallo. Anche queste percentuali, tuttavia, hanno ormai vent’anni e sono probabilmente diminuite ulteriormente, dati i significativi progressi nella sicurezza dell’aborto illegale e nella qualità delle cure post-aborto. Un gran numero di questi decessi, forse anche la maggioranza, sono dovuti ad aborto spontaneo, e quindi solo una percentuale molto piccola, e un numero molto piccolo, di morti materne sono dovute specificamente all’aborto indotto. Le prove che questo piccolo numero di donne sarebbe stato salvato dalla legalizzazione dell’aborto rimangono scarse. Di conseguenza, per ridurre la mortalità materna con risorse limitate, l’assistenza ostetrica di emergenza e l’ampia copertura dell’infrastruttura sanitaria di base dovrebbero essere prioritarie rispetto a politiche di sostegno costose, controverse e probabilmente inefficaci».
Ciò non significa naturalmente considerare le vite di queste donne meno importanti di altre, pare quasi ridicolo doversi giustificare: anche una sola morte sarebbe troppo. Contemporaneamente, non è possibile però farsi scudo di dati gonfiati mediaticamente ad arte per forzare la mano alla politica, affinché decida per una liberalizzazione che, anche a voler prescindere dai princìpi non negoziabili, non gioverebbe alla riduzione dei puri, nudi numeri dei decessi.
Eppure, il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists britannico non ha mancato di avallare l’articolo del Telegraph e la notizia di 12mila donne scannate ogni anno come bestie, mentre non smette di “cinguettare” a favore di «safe abortion», di aborto sicuro che «saves lifes», che salverebbe vite umane. Come ci siamo chiesti più e più volte su queste colonne virtuali, quali vite, in ogni caso, se il bambino comunque muore?
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