Last updated on Giugno 30th, 2021 at 04:04 am
«#LiberaDiAbortire è una campagna di pressione sulle istituzioni e di informazione pubblica per garantire a tutte le donne il libero accesso all’aborto: un appello al Ministero per medici non obiettori, 1000 manifesti per le città italiane, un decalogo per informare, accompagnare e difendere chi esercita la propria scelta». Così recita il sito web, che insiste in modo particolare sulla minaccia al libero accesso in Italia all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), rappresentata dai medici obiettori, da informazioni definite «antiscientifiche», dalle “odiose” associazioni cosiddette (da loro) «no choice».
Il sito della campagna, promossa fra gli altri dai Radicali, propone anche un “comodo” vademecum, il prontuario per un aborto “sereno” e “in sicurezza”, che addirittura si premura di far presente alle future non-mamme per scelta che «Se vuoi interrompere la tua gravidanza entro i primi 90 giorni non è necessario dimostrare la presenza di un grave rischio per la tua salute o del feto. Non è legalmente concesso negarti il ricorso ad una interruzione di volontaria di gravidanza entro i primi tre mesi».
In realtà, la Legge 194 del 1978, benché pessima di per sé, partirebbe dal punto di vista opposto, almeno nelle intenzioni che dichiara, cioè dall’aborto visto come extrema ratio quando tutto ma proprio tutto sia stato tentato per impedirlo, ma tant’è, dura lex sed lex.
«iFamNews» si è già occupato di questa campagna discutibilissima, ponendo l’accento sulla violenza pulp che esercita sulle donne e inoltre sul personale sanitario, medici, ostetriche, infermieri che si professino obiettori. Ma si sa, c’è “chi può”, laddove invece la presenza delle associazioni pro-life negli ospedali di Torino è considerata dalla parte avversa esecrabile ed esecranda.
L’accento è stato posto anche su un aspetto non troppo nascosto, quello che si tratti cioè di una campagna di raccolta fondi, se oltre a firmare l’appello le truppe cammellate cosiddette pro-choice possono finanziare un manifesto o comprarsi la maglietta. Che poi è pure orrenda.
Di questa campagna si è occupata, con il garbo e l’intelligenza che la contraddistinguono, anche Giorgia Brambilla, bioeticista, autrice, docente nella facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, ethics consultant nell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Lo ha fatto dai microfoni di Radio Roma Libera nella puntata di venerdì 11 giugno del suo Diario di bioetica, disponibile in podcast, e ascoltarla permette di sottolineare alcuni punti di importanza fondamentale e sollevare questioni cui sarà d’obbligo rispondere.
La campagna, ricorda Giorgia Brambilla, ha preso spunto da una vicenda controversa, vale a dire la denuncia di una donna, che aveva scelto l’IVG, quando ha scoperto che il corpicino del suo bambino abortito aveva trovato sepoltura al cimitero Flaminio di Roma, con una targa che riportava nome (e forse cognome) della madre. Anche di questo «iFamNews» ha dato conto in passato, con tutto il rispetto che si deve al dolore. Ma ancora una volta quel che si registra è una contraddizione di fondo, se è vero come rileva la professoressa Brambilla che ciò che viene sottolineato (e considerato particolarmente negativo) è che non vi sia invece, come d’abitudine per i figli, il cognome paterno del piccolo. Ma come? Ma li hanno estromessi, gli uomini, prima dal letto e poi dalle decisioni condivise nella coppia sul corpo materno, al grido che «l’utero è mio e lo gestisco io», nella lotta al patriarcato, alla mascolinità tossica, nella pretesa di attribuire al figlio il cognome materno, e ora li tirano in ballo di nuovo?
La narrazione sull’argomento di quella che si può a qualche titolo definire “letteratura”, cioè in prevalenza le riviste femminili, che ha un seguito e crea una base culturale cui molte persone attingono, entrando nella mentalità comune e nelle coscienze, è governata da una spinta completamente emotiva, priva di lucidità, continua la Brambilla. Lo stigma nei confronti dell’aborto viene agitato a mo’ di spauracchio e una retorica fortissima investe invece l’aspetto dell’aborto cosiddetto terapeutico, le patologie fetali e tutta la questione che riguarda le tecniche non invasive di screening prenatale, i NIPT.
Giorgia Brambilla tocca poi un’altra questione che riveste un’importanza straordinaria, cioè la denuncia ridondante, rivolta al personale sanitario obiettore di coscienza, della disparità nell’accesso all’aborto nelle diverse Regioni italiane. E di nuovo viene da gridar «ma come?». Ma sono anni che si celebra il mito della RU486, dichiarata facile, comoda, indolore, disponibile a tutte, pure in lockdown stretto e in zona rossa-verde-blu, e adesso riparte la manfrina secondo la quale le ostetriche brutte e cattive colpevolizzano le donne e impediscono loro di abortire? Affermazione quantomeno stiracchiata, fra l’altro, considerata tale proprio fra gli addetti ai lavori.
E ancora: ma la libertà di decidere di sé non è considerato un valore fondante? Un principio cardine? E allora perché un medico obiettore dovrebbe vedere invaso il proprio spazio di coscienza?
Contraddizioni, contraddizioni ovunque. E la sensazione affatto sfumata che venga trattato secondo una modalità ideologica abortista senza scampo il corpo, oggetto di un dualismo antropologico e di una confusione che, alle donne e ai bambini, certamente fanno male.
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