Last updated on Ottobre 25th, 2020 at 03:31 am
Sia ben chiaro che se fosse accaduto a me, sarei in prima fila a reclamare giustizia.
Perché è certamente ingiusto che il nome e (forse, le notizie non paiono univoche) il cognome di una mamma che abbia abortito, per decisione o per disgrazia, ma i casi sarebbero sventurati entrambi, sia stampigliato a chiare lettere sulla tomba che custodisce il corpicino del suo bambino, a meno che la mamma stessa non l’avesse desiderato e chiesto. Io l’avrei voluto con tutta me stessa, ma si tratta di scelte e forse non è possibile giudicare.
Questo pare essere accaduto al cimitero Flaminio, a Roma, e poco tempo è trascorso da quando il popolo del web è insorto contro ciò che appare, da ogni punto di vista, una violazione della privacy ma soprattutto un atto di indelicatezza gravissima. Nessuno, davvero, può immaginare il dolore di una madre che perdesse un figlio, quale che ne fosse la circostanza.
Sembra che vi siano stati fraintendimenti ed errori, sembra che partirà una class action a chiedere conto ai responsabili, sembra che un’interrogazione parlamentare avrà luogo.
E però occorre essere chiari. Lo scandalo corre sui binari del dolore e dello stigma (argomentato specialmente se non esclusivamente da donne che all’aborto abbiano scelto di ricorrere), dell’insulto al diritto alla riservatezza e del desiderio di dimenticare quanto più in fretta possibile una scelta che, mi dispiace ma lo affermo convinta, è una scelta di morte.
Ai piccoli abortiti, pare non pensare nessuno.
Eppure esiste il diritto delle famiglie a ricevere e seppellire i propri bambini non nati (quasi sempre, in tal caso, per aborto spontaneo), ed esiste per gli aborti avvenuti dopo un determinato periodo gestazionale un obbligo alla sepoltura.
Una legge sulla sepoltura obbligatoria dei feti, degli embrioni e del cosiddetto materiale abortivo (la distinzione riconduce tutta quanta al periodo gestazionale) era stata stabilita in Lombardia, primo e unico caso, nel 2007 dalla giunta Formigoni, con spazi cimiteriali dedicati. È stata poi abrogata nel 2019, su iniziativa del Consiglio Regionale che ha votato all’unanimità un emendamento presentato dal Partito Democratico per vincolare la sepoltura degli embrioni «esclusivamente alla esplicita richiesta della donna o di chi è titolato alla decisione».
I bambini della scuola primaria studiano la preistoria in classe terza. Paleolitico, Mesolitico e Neolitico si avvicendano sui libri e sui quaderni e raccontano vicende affascinanti cui la diatriba tra creazionismo ed evoluzionismo non toglie significato e pregnanza. È allora che si impara che, presumibilmente, proprio durante il Neolitico si affacciarono sulla scena le prime sepolture, segno possibile della credenza in una vita che seguisse la morte terrena, del pensiero simbolico e della trascendenza. Né le inumazioni negano che la cremazione prevedesse le medesime convinzioni, ma certamente ce ne tramandano la testimonianza.
È il momento clou in cui numerosi antropologi considerano sia nata la civiltà così come generalmente intesa, fatta di comunità e lavoro e convinzioni condivise, quanto meno a gruppi, magari contrapposti.
Non è umano e non è civile negare la sepoltura. A nessuno. Men che meno a un bambino (sì, non è un grumo di cellule. Ha cuore che batte e DNA e diritti). Pur nel diritto della riservatezza di tutti.
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