Last updated on Ottobre 21st, 2021 at 09:16 am
«L’aborto post-nascita dovrebbe essere ammesso in tutti i Paesi che accettano l’aborto come pratica lecita sul piano giuridico ed etico»: già nel 2012 due ricercatori, italiani trasferitisi in Australia, affermavano, senza mezzi termini, che non c’è differenza fra lo status morale di un feto e quello di un neonato. Non è il passaggio attraverso il canale del parto ad attribuire al feto la dignità di persona. Verissimo. Ma questo viene purtroppo strumentalizzato biecamente dalla Nuova Zelanda, che ha depenalizzato l’aborto con una delle leggi più estreme del mondo, ovvero imponendo di lasciare agonizzare senza assistenza medica i bambini sopravvissuti ad aborti tardivi.
Uccidere un neonato è, dunque, eticamente accettabile in tutti i casi in cui lo è l’aborto dal momento che «lo stato morale del neonato è lo stesso di quello del nascituro; e se nessuno di loro ha alcun valore morale in virtù del fatto di essere solo una persona potenziale, allora la stessa ragione dovrebbe giustificare l’omicidio di una persona potenziale quando è appena nata».
Tra feti e neonati nessuna differenza
Eppure, nonostante l’orrore della legge neozelandese che permette di lasciar morire bambini nati vivi, ma “non voluti”, in Europa sta già accadendo di peggio. L’aveva preannunciato il sondaggio pubblicato sul periodico Acta Obstetricia et Gynecologica Scandinavica: medici e altri professionisti sanitari nelle regioni di lingua neerlandese del Belgio disposti a praticare aborti tardivi sono favorevoli anche alla legalizzazione dell’infanticidio. Concorderebbero, infatti, nell’affermare che «in caso di condizione neonatale grave (non letale), la somministrazione di farmaci con l’intenzione esplicita di porre fine alla vita neonatale è accettabile».
Dovrebbe dunque essere possibile la «legale soppressione» della vita di bambini attesi, desiderati e nati vivi, nel caso in cui fossero portatori di disabilità o affetti da gravi malattie. Purtroppo non si tratta solo di ipotesi.
Omicidi di bambini
«Penso che molte persone siano arrivate a considerare l’eutanasia un aspetto normale dei compiti di un medico, proprio come fare nascere bambini o eseguire un intervento chirurgico. Ma ho l’impressione che una minoranza considerevole e crescente si ponga una domanda preoccupata: “Dove si andrà a finire?”». Così si è espresso, sulle pagine di «iFamNews», il professor Theo Boer, docente di Etica sanitaria, grande alfiere dell’eutanasia nei Paesi Bassi e poi grande pentito, di fronte alle drammatiche derive raggiunte dalle pratiche eutanasiche. Ora, nel suo Paese, pur non essendo stata formalmente estesa anche ai bambini, di fatto le linee guida emanate dal governo ordinano al pubblico ministero di non perseguire i medici che pratichino l’eutanasia ai minori di 12 anni, secondo determinati criteri.
La realtà, però, è addirittura peggiore: una pubblicazione medica specialistica e autorevole, gli Archives of Disease in Childhood. Fetal and Neonatal Edition, riporta che ben il 10% di tutti i bambini morti nelle Fiandre tra il 2016 e il 2017 entro l’anno d’età abbia ricevuto dai propri medici farmaci con l’«esplicita intenzione di abbreviarne la vita». Sono stati cioè uccisi: si tratta di infanticidio.
Lo studio, intitolato End-of-life decisions in neonates and infants: a population-level mortality follow-back study, «Decisioni di fine vita nei neonati e nei lattanti: uno studio di follow-back sulla mortalità a livello demografico», riguarda le decisioni di fine vita («end-of-life decision», ELD), compreso il non trattamento o i farmaci per alleviare il dolore e/o i sintomi. Dal questionario anonimo sottoposto ai medici curanti emerge che nel 61% dei casi di decessi infantili nelle Fiandre nel periodo preso in considerazione dalla ricerca, un ELD abbia preceduto la morte. Se “solo” nel 10% dei casi sono stati somministrati farmaci con intenzione esplicita di abbreviare della vita, vi sono anche casi, addirittura una enormità come il 37%, di mancata somministrazione o di sospensione dei trattamenti. Significa che questi bimbi sono morti perché non sono state offerte loro le cure di cui avevano bisogno: sono stati lasciati morire.
Poi c’è un altro enorme 14% di casi in cui sono stati somministrati farmaci con possibile, anche se non esplicita, conseguenza di accorciamento della vita.
Ciò significa che più della metà dei neonati e degli infanti morti nelle Fiandre tra il 2016 e il 2017 è deceduta in seguito a una azione positiva, o a una omissione altrettanto positiva, operata da medici curanti con l’intenzione – più o meno esplicita – di porre termine all’esistenza di quei piccoli.
Non esiste una “piccola eutanasia”
Lungi dal denunciare la situazione in atto, gli autori della ricerca, constatando lo status quo, suggeriscono di sviluppare una regolamentazione che consenta l’infanticidio in condizioni più controllate, se pur con il rischio di trovarsi a «limitare i neonatologi nel prendere decisioni che ritengono giustificate nel migliore interesse del bambino». La paura, dunque, sarebbe che una maggior monitoraggio e una migliore valutazione della pratica (cioè dell’infanticidio) potrebbe limitare l’azione dei medici. Ovviamente in vista di quel «migliore interesse» che nei Paesi Bassi, ma non solo, è la formula magica per rendere accettabile qualsiasi nefandezza.
L’infanticidio, però, non è una pratica medica etica. Il solo fatto che si arrivi a considerarlo dimostra che «concedere ai medici (e, sempre più spesso, agli infermieri) una licenza per uccidere alla fine corrompe la medicina, dall’inizio della vita fino alla fine della vecchiaia».
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