Last updated on Agosto 9th, 2021 at 06:04 am
Le Olimpiadi, in realtà, rappresentano molto più che un evento sportivo di dimensioni mastodontiche. Muovono montagne di denari e coinvolgono l’economia, ma anche la politica: basti pensare alle polemiche di Pechino 2008 e all’ipotesi di boicottaggio da parte di alcuni Paesi di Pechino 2022. Rivestono un ruolo fondamentale per la creazione o per la riqualifica del cosiddetto brand del Paese che le ospita e ne modificano il tessuto urbano. Costituiscono infine un acceleratore di tendenze che imprime ritmi vertiginosi alla società, come per quanto riguarda la polemica sull’opportunità o meno di inginocchiarsi in onore del movimento Black Lives Matter, in verità già emersa appieno nel corso dei Campionati Europei di calcio conclusi da poco.
Insomma, oltre alle questioni sportive i Giochi offrono molti altri argomenti di cui parlare. Uno di questi è stato la partecipazione delle atlete donne e più in generale il ruolo delle donne nello sport, specie se a livello agonistico alto o altissimo. Anche «iFamNews» si è interessata all’argomento, e ha voluto parlarne in particolare con due delle sue redattrici: Rachele Sagramoso (di seguito RS), ostetrica, e Cristina Tamburini (CT), filosofa, mamme entrambe di famiglia numerosa, che offrono qui il proprio punto di vista.
Atlete madri e atlete in gravidanza
L’attenzione alla partecipazione delle atlete donne, che si è riscontrata durante i Giochi Olimpici in corso, si è rivolta in modo particolare alle atlete madri o in procinto di esserlo. Per quanto riguarda le donne in gravidanza che praticano sport a livello agonistico, visto da alcuni come un valore e da altri come una sorta di esibizionismo, qual è la vostra opinione?
RS Personalmente, per mentalità e per professione, io mi fido delle donne: di quelle che se la sentono di gareggiare e di quelle che non se la sentono. Ogni donna è un “prototipo”, perfettamente in grado di sapere quale sia il bene del suo bambino.
CT Non sono mai stata sportiva in vita mia, e fatico a identificarmi con le atlete che decidono di gareggiare in gravidanza. Mi auguro che certe scelte più “estreme” siano frutto di una decisione libera da parte delle donne in questione, e non le conseguenze della necessità di mantenere contratti di lavoro piuttosto che una immagine di “super donna” in grado di fare sempre e comunque tutto. Considero la gravidanza non come un “accidente” nella vita di una donna, come una semplice condizione passeggera da superare più velocemente e con meno “inciampi” possibili. In gravidanza una donna vive l’attuazione di una sua potenzialità, il fiorire della sua fertilità e subisce dei cambiamenti irreversibili che se pure vengono descritti quasi sempre come negativi (aumento del peso, smagliature e così via) hanno invece a che vedere con la “perfezione” (nel senso etimologico del latino perficio, portare a compimento) di sé. In quest’ottica non mi scandalizza affatto, anzi, una donna che se la senta e riesca a raggiungere nel medesimo tempo anche significativi successi sportivi, sempre nella consapevolezza che il bene della madre e quello del bambino non sono e non possono essere in alcun modo contraddittori.
Se è certamente positivo che una donna in salute, sotto controllo medico, che ne tragga piacere, pratichi sport, in un contesto agonistico elevato non rischia però di passare un messaggio diverso e negativo, come a dire «Lei sì che è brava, non come quelle “noiose” che a 9 settimane richiedono al medico la gravidanza anticipata per smettere di lavorare»?
RS La gravidanza è un aspetto fisiologico della vita della donna, che può portare dei rischi relativi nelle donne sane prima di rimanere gravide e rischi un po’ più importanti in coloro che hanno già qualche patologia. Poi, ovviamente, ci sono i casi particolari che possono dare delle sorprese. Per tale motivo la gravidanza fisiologica abbisogna di uno standard di assistenza che sia completo per tutte le donne e poi ci sono quei casi che sono da tenere sotto controllo con attenzione. Un’assistenza personalizzata che punti su un percorso “salutogenico” e che non faccia sentire la gravida malata, è il percorso più lineare che serve per far sì che tutte le donne si sentano in grado di vivere la gravidanza in modo da non inficiare le normali attività: la gran parte delle donne è capacissima di portare a termine una gravidanza e se il servizio di assistenza è ottimale, ovvero non intrusivo né patologizzante, la donna darà alla luce il suo bambino in modo naturale. Coloro che avranno bisogno di aiuto, non dovranno essere fatte sentire incapaci, ma semplicemente in diritto di essere assistite in modo decoroso e professionale. Detto questo ogni donna vive la propria gravidanza come più ritiene opportuno, una volta aiutata a comprendere il proprio stato di salute. Il problema in oggetto sta nell’orribile abitudine di compiere paragoni tra le persone e, nello specifico, tra gravide. Abitudine, voglio essere chiara, che possiedono anche gli operatori sanitari e che è stato alimentato proprio da loro. Il messaggio che rende una gravida che si percepisce stanca a un grado inferiore di una che ha più energia è semplicemente sbagliato dal punto di vista della fisiologia.
CT Penso che il problema sia esattamente il punto di partenza errato di un’etica della terza persona, per cui un ipotetico “osservatore neutrale” debba pensare di potersi permettere di definire “migliore” una donna perché riesce a gareggiare e “peggiore” un’altra perché costretta a letto per le implicazioni che la gravidanza può comunque portare. O, viceversa, che una donna che gareggia è un’incosciente e quindi in qualche modo “peggiore” di un’altra che viva la gravidanza con estrema (o addirittura eccessiva) prudenza. Allora l’errore non è nel comportamento di ogni singola donna, che sola conosce nel profondo le circostanze interiori ed esteriori per cui prende una decisione e assume un comportamento, ma in chi pretenda di definire una scelta come “giusta” a prescindere dalle circostanze, e che inoltre si assurga il diritto di saperne riconoscere i tratti nell’esistenza altrui.
Tale spot all’agonismo femminile non significa per l’ennesima volta chiedere alle donne una performance, invece di permettere loro di rispettare la propria fisiologia, il proprio corpo, e “fare i mammiferi” in santa pace?
RS Alle donne, da millenni, è sempre chiesta qualche performance. Anche nelle sale parto più all’avanguardia, la donna che piange perché sente tanto dolore ma è all’inizio del travaglio, è “bollata” come lamentosa e fatta sentire inadeguata. È una delle forme che assume la violenza ostetrica. Il grosso problema sta nel non concepire e non accettare la dignità di ogni donna che affronta un grosso scoglio, quello della nascita, diverso per ciascuna e diverso nella stessa donna, per ogni volta che partorisce. È da tempo che alle donne è richiesta la performance di non disturbare anche se hanno dolore, perché è l’operatore che non sa più confrontarsi con la sofferenza. Lo vediamo nel non sostenere una gravidanza “fragile”, per condizioni della donna e/o del bambino, nel non sapere come affrontare la malattia, e basti pensare alla questione dell’eutanasia. In un contesto di questo tipo, come sostiene la collega ostetrica Verena Schmid, «Evviva l’epidurale quando manca il parto naturale».
CT In questo momento storico “l’uguaglianza” e “la parità” tra i generi vengono sbandierate come obiettivi da raggiungere, non però nel riconoscimento della specificità di uomo e donna, e di ogni singolo individuo, ma in un amalgama indistinto e indifferenziato che dovrebbe garantire un minimo di “uguale considerazione” per l’unica caratteristica minima riconosciuta comune tra tutte le persone, e cioè la capacità di provare piacere e dolore. In questo senso è comprensibile come si possa non riconoscere la maternità in sé e la gravidanza nello specifico come la più grande performance di una donna (la sua perfezione come attuazione della sua fertilità come potenzialità intrinseca) e associarla invece ad altre performance più o meno “significative” nell’ambito di un giudizio calato dall’alto. L’errore, dal mio punto di vista, sta sempre nella presunzione di una definizione e di un giudizio dati dall’esterno, in base a criteri astratti che nulla abbiano a che vedere con la felicità e la vita buona di ogni singolo.
Proprio in questa logica falsata della “indifferenza” dei sessi, tutto ciò non significa chiedere loro di competere come un uomo, come spesso accade per esempio nel mondo del lavoro? Del resto, alcuni sponsor sono accusati di decurtare premi o chiudere contratti in caso di gravidanza delle atlete…
RS Sarò estremamente tranchant: che differenza c’è tra una donna gravida che gareggia nella corsa sui 1000 metri e una gravida che in Africa percorre i medesimi 1000 metri con un bambino in fascia e una gravida che scrive articoli per «News» mentre controlla i compiti dei figli di 6 e 8 anni e prova la lezione a quello di 12? Le donne sanno perfettamente essere multitasking molto più degli uomini, e giustamente: non è la loro fisiologia. Il problema sta nel dove puntano i riflettori. Affermato questo, bisognerebbe porre la domanda alle femministe che hanno approfittato e goduto della scienza medica che ha consentito loro di diventare come uomini nel mondo del lavoro: loro hanno gettato la donna nel vortice illusorio delle “pari opportunità”, loro dovrebbero – se ne ravvedessero il problema – tirarcele fuori. Ma adesso non possono farlo perché sono vecchie e sole. Sole e coi loro gatti.
CT Senz’ombra di dubbio la mentalità odierna porta a pensare che la perfezione di una donna, nel senso etimologico di cui sopra, coincida con il suo diventare il più possibile uguale a un uomo. Manca totalmente il riconoscimento da una parte delle caratteristiche di forza e tenacia delle donne – che pure si concretizzano in azioni differenti rispetto a quelle tipiche della mascolinità – da una parte, e del valore anche della fragilità e della debolezza, così come sottolineate da Alasdair MacIntyre nel celebre Animali Razionali Dipendenti.
Atlete che allattano
Inizialmente, l’organizzazione dei Giochi non prevedeva che i figli delle atlete, benché allattati al seno, potessero essere presenti a Tokyo al seguito delle madri. In seguito ad alcune proteste, si è deciso invece di concedere tale possibilità. Pare però che alcune atlete abbiano abbandonato l’allattamento al seno perché le condizioni concesse erano troppo rigide, poco rispettose dei bambini e soprattutto incompatibili con la concentrazione e l’impegno richiesti per le gare. Cosa ne pensate?
RS Oggi è l’allattamento, domani? In pochi sanno in effetti cosa sia l’allattamento. Se alle donne fosse chiaro cosa c’è nel gesto di nutrire un bambino con le mammelle, in poche non comprenderebbero il peso della scelta di non farlo o non si porrebbero il problema sul come sostituire l’allattamento nel momento in cui si vuole o si deve interrompere. L’allattamento è una relazione. Tale relazione è necessaria per la donna, per sentire che è in grado di occuparsi del proprio figlio, ed è necessaria per il neonato/bambino per maturare la propria identità. Sappiamo infatti che come viene allevato il bambino, come la mamma risponde ai suoi bisogni fisiologici, e il primo in assoluto è quello di contatto, così egli formerà la propria identità nel contesto familiare. Se piango mamma viene, quindi sono una persona con un valore. Questo ha cospicuo peso nel modo in cui l’adolescente e poi l’adulto maturerà la propria sessualità. Le atlete sono state messe in grado di avere tutte queste informazioni o è stato detto loro che è indifferente allattare con la poppa o con la formula?
CT Non ho compreso se il motivo per cui i bambini allattati non possono entrare nel Villaggio olimpico abbiano a che vedere con le precauzioni legate al Co-Vid19 o se esistano altri motivi per cui è stato prima falsamente suggerito che le atlete avrebbero potuto allattare, rendendolo però poi impossibile nei fatti. In entrambe i casi resto sconcertata dalla superficialità con cui il tema dell’allattamento viene per lo più trattato, come se il latte materno e la formula fossero la medesima cosa e come se la relazione tra madre e bambino non avessero a che vedere con l’allattamento stesso, quasi avesse a che fare solo con il mero nutrimento. Si tratta di una immensa mancanza di rispetto per le madri e i loro bambini e mi stupisce molto che non abbiano preso una posizione molto più dura in merito le atlete e, perché no, anche gli atleti maschi che, in quanto uomini, avrebbero il dovere di proteggere le donne.
In conclusione
La chiacchierata di redazione su questo tema è proseguita off records a lungo. Il giudizio che ne è maturato può essere riassunto in una constatazione che lascia sconfortati. Dove si trova, in tutto questo, il bambino? La centralità del bambino infatti è totalmente assente. Il “femminismo originario” delle Families for Life, per il quale la società avrebbe dovuto adattarsi alla maternità e al bambino, è totalmente scomparso.
Piuttosto, punto focale del discorso è l’adulto, o ancor più il genitore “adultescente” che vuole tutto e su tale altare sacrifica sia il bambino sia la donna in quanto madre. Poco importa se a compiere tale sacrificio sia la donna stessa, in una sorta di delirio di onnipotenza, o l’uomo che non la protegge, bensì la strumentalizza in una logica consumistica e malthusiana.
Chi viene fatto fuori, metaforicamente oppure no, è comunque sempre il bambino, essere umano che non ha più valore in quanto tale, bensì solo come fonte di soddisfazione dell’adulto.
Grazie Rachele Sagramoso e Cristina Tamburini per l’indispensabile contributo
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