Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:43 pm
Per capire quale sia la missione professionale delle ostetriche è sufficiente consultare il sito Internet della Federazione Nazionale degli Ordini della Professione Ostetrica. Un punto fermo è la condanna della medicalizzazione della gravidanza, quando, da aspetto fisiologico normale della vita femminile, essa diviene preda di pratiche farmacologiche o chirurgiche eccessive. Ma, per alcune ostetriche, la gravidanza è fisiologica se e solo se la donna desidera che lo sia. Ovvero, se la donna, che nella stragrande maggioranza dei casi vive quell’evento assolutamente normale, considera la gravidanza un aspetto ricevibile della propria vita, allora l’ostetrica la può seguire per garantirne la salute, assistendola per tutta la gestazione e anche, magari, per il parto domiciliare.
Se però la donna considera invece la gravidanza “irricevibile”, allora l’ostetrica dovrà fornirle tutto il sostegno possibile per aiutarla a considerare la possibilità dell’aborto.
Dunque, se la donna desidera abortire, la donna ha il diritto di richiedere di abortire, come si legge con chiarezza in una lunga intervista a una collega ostetrica, pubblicata su IoCalabriaMagazine. Si recherà, allora, «nella maggior parte dei consultori italiani, dove è possibile essere presi in carico dall’equipe di competenza (ostetrica, medico, psicologo) per essere accompagnati ad una scelta consapevole che crei anche una rete con l’ospedale di riferimento».
Ma facciamo un passo indietro: «se la donna desidera abortire»? E dove compare il verbo «desiderare»? Nemmeno nella Legge 194/ 78, che ha legalizzato l’aborto italiano, c’è quel verbo. Facciamo pure un secondo passo indietro: «se la donna desidera abortire, la donna ha il diritto di abortire»? E dove compare il sostantivo «diritto»? Nemmeno nella Legge 194/ 78, che ha legalizzato l’aborto italiano, c’è quel sostantivo. Terzo e ultimo passo indietro: ai consultori, dove, per la maggior parte, se una donna desidera “abortire”, abortire le viene garantito come un “diritto” benché nemmeno la Legge 194/ 78, che ha legalizzato l’aborto italiano, usi questo linguaggio, e benché accada pure tragicamente che alcune donne si suicidino o cadano in depressione per il resto della propria esistenza, suggerendoci nell’orecchio che forse forse questo caspita di counseling andrebbe gestito un tantino meglio.
Poi c’è il tema della «violenza ostetrica», una hit del nostro tempo che sta diventando un tormentone.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, «nella Dichiarazione del 30 settembre 2014 afferma che la Violenza Ostetrica rappresenta un grave problema di salute pubblica globale che mette a rischio il benessere e la salute bio-psico-sociale della madre e del bambino». La dichiarazione è interessante soprattutto alla luce dei racconti di mamme che hanno subito aborti ‒ come racconta Andrea Mazzi, animatore generale del Servizio «Famiglia e vita» dell’associazione Papa Giovanni XXIII, nel saggio Indesiderate, Storie di ordinarie discriminazioni di donne e bambini in una società abortista (Sempre Comunicazioni, Verona 2017) ‒ o che hanno dovuto combattere a denti stretti per salvaguardare i propri bambini speciali e fragili dalla “medicalizzazione”, come evidenziano diverse vicende, fra cui quella di Isabella e quella di Annalisa.
Supporre che esistano operatori sanitari che chinano il capo all’ideologia violenta contro la vita che viene alla luce e contro il legame indissolubile tra il nascituro e la madre, e che lo facciano disconoscendo decenni di studi scientifici, sociologici e neonatologici che avvalorano ciò che le levatrici conoscono da millenni (e, come loro, gli etologi), fa pensare al fatto che nel concetto di «medicalizzazione» (quella combattuta da tutte le ostetriche, giusto?) e in quello di «violenza ostetrica» si voglia semplicemente infilare ciò che fa più comodo.
Questa però non è scienza, è ipocrisia.
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