Chi guarda i bambini che guardano «Squid Game»?

Se c’è una forza che vince la paura la censura non serve. Sennò è come dare all’imperatore nudo un ombrello

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Last updated on Ottobre 28th, 2021 at 05:32 am

Val la pena parlare di Squid Game? Squid Game è una banale miniserie di Netflix, nove episodi, di origine coreana, espressione di una “denuncia” sulle disparità socioeconomiche. In pratica, 455 giocatori si contendono una grossa somma di denaro attraverso una serie di sfide, con il piccolo particolare che chi perde è fatto fuori, ucciso, in modo cruento e scenograficamente enfatizzato, per il divertimento di una élite di privilegiati.

Non fosse per i 111 milioni di visualizzazioni registrate dopo solo 28 giorni dal debutto davvero non sembrerebbe che a Squid Game spettassero più dei pochi secondi necessari per scrollare il frame della libreria Netflix, andando alla ricerca di qualcosa di più interessante.

Eppure un quid significativo questa serie deve pur avercelo, a partire da «colori perfetti, colonna sonora sontuosa (come se ci fosse di nuovo Stanley Kubrik), recitazione meravigliosa con dialoghi chirurgici». Non è la prima volta che una trama di per sé violenta, e una resa a volte anche decisamente splatter, appartengano a uno spettacolo che veramente val la pena di essere visto, a partire da Kill Bill (2003) o Bastardi Senza Gloria (2009) di Quentin Tarantino, inseriti nella classifica dei venti film più violenti della storia, come anche Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick e Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese.

Ma pare che di Squid Game non si parli, principalmente almeno, per il suo “valore”, reale o meno che sia.

Il re è nudo

Sono i bambini il motivo per cui la miniserie coreana è sulle labbra di tutti: un esempio sugli altri, il team per la tutela dell’istruzione del consiglio comunale della contea di Bedfordshire, in Inghilterra, ha messo in guardia i genitori esortandoli a «essere vigili dopo aver ascoltato le segnalazioni secondo cui bambini e giovani starebbero copiando giochi e violenza della nuova serie Netflix di successo Squid Game». Anche in Italia arrivano numerose segnalazioni di bambini che a scuola giocano a 1, 2, 3 stella emulando la serie con schiaffi e pugni. Perché in Squid Game i giochi che sono proposti ai concorrenti sono proprio i tipici giochi dei bambini, come «il gioco del calamaro», letterale traduzione del titolo, molto in voga tra i bambini coreani.

Così maestre, genitori ed educatori hanno iniziato a notarli, a notare magari per un primo brevissimo istante con curiosa simpatia la ripresa di un gioco dei nostri tempi, immediatamente sostituita dall’orrore di riconoscere l’emulazione di un prodotto decisamente non adatto ai bambini. È tale l’inquietudine, che addirittura è stata lanciata, su Change.org, una petizione per fermare la serie. Una vera e propria invocazione alla censura per rispondere alla «necessità di far fronte alla sconfitta del parental control e alla crisi della genitorialità. Una debacle messa a nudo dai social e, soprattutto, dalle decine di segnalazioni che esperti per la sicurezza digitale delle nuove generazioni hanno raccolto in tutta Italia».

Quell’ombrello che non è un vestito

Accade che preadolescenti e ragazzini, un pubblico ben al di sotto a quei “14 anni” a partire dai quali Netflix consiglia la visione della serie (e anche qui ci sarebbe molto da dire), guardino uno spettacolo inadatto alle loro capacità cognitive ed emotive. L’inadeguatezza dello spettacolo emerge dalle conseguenze osservabili, anzitutto: bambini che mimano tra loro giochi con esiti mortali sconvolgono l’immaginario degli adulti. Sicuramente peggiori sono le conseguenze meno osservabili, quello che i bambini, anche quelli un po’ più cresciuti, hanno provato di fronte all’orrore di certe visioni, nell’incapacità di decodificare il significato comunicato dentro un significante scioccante. Immagini che probabilmente stanno popolando i loro sogni, i loro pensieri: peggio dei bambini che giocano a Squid Game sono i bambini che pensano a Squid Game quando sono spaventati, pieni di quelle inquietudini che popolano la mente quando si è soli.

Ma pensare di risolvere lo scandalo Squid Game vietandone la riproduzione è come pensare di rivestire l’imperatore che sfila nudo in mezzo alla folla fornendogli un ombrello. Certo, magari se piove non si bagna, non di meno nudo resta, e indifeso. La stessa illusione di chi pensa che l’empowerment femminile abbia a che fare con l’aumento dei posti di lavoro retribuiti per le donne, immaginando o – meglio – volendo immaginare che la questione demografica – per dirne una – sia problematica principalmente economica, quando è piuttosto schiettamente culturale.

Bisognerebbe iniziare a domandarsi in quali faccende siano affaccendati quei genitori, che probabilmente si stanno facendo in quattro per tenere in piedi la propria famiglia, per accorgersi solo a posteriori – dopo la denuncia degli “esperti per la sicurezza digitale” – che i propri bambini si intrattengono guardando spettacoli di violenza inaudita e gratuita. Ma soprattutto, bisognerebbe iniziare a chiedersi che cosa stiano guardando, oltre a Squid Game, questi bambini e ragazzi che hanno libero accesso a quel che il web propone – quindi praticamente la qualunque in termini di violenza, droga, sesso e chi più ne ha più ne metta – sicuramente turbati da quel che vedono, ma ancora più dal fatto di trovarsi soli e indifesi in un mondo immensamente vasto e pieno di insidie. Mentre le loro mamme, magari, stanno chattando su Facebook della diseducatività delle fiabe “antiche”, dove il cacciatore ammazza il lupo e le principesse son salvate dai principi. Quante immagini “inadeguate” sono scivolate sugli schermi che riempiono le loro giornate (e purtroppo spesso anche nottate) e ne affollano ancora i pensieri e la memoria, senza nemmeno la catartica traduzione nel gioco comune?

E mentre il governo propone ai genitori bonus tecnologici per acquistare ai figli quei dispositivi davanti ai quali veleggeranno tra le derive della solitudine e dell’indifferenza, tornano alla memoria i Signori grigi immaginati dal genio dello scrittore tedesco Michael Ende (1929-1995) nel romanzo Momo, quei parassiti soprannaturali che rubano il tempo alle persone privandole di tutto quel che viene considerato superfluo, come le attività sociali, lo svago, l’arte, il divertimento semplice e condiviso. A quando un bonus tempo libero che non serva a incentivare gli acquisti, ma a trascorrere un pomeriggio libero da preoccupazioni economiche e lavorative?

La libertà di dire «no»

Però, parliamoci chiaro: di fronte a questi scenari raccapriccianti, la famiglia non è l’anello debole da proteggere di fronte a tutte le brutture di un mondo alla deriva. La famiglia, al contrario, è l’avanguardia, il baluardo, quel luogo che sa affrontare i draghi – che, come le favole ci insegnano, esistono per essere sconfitti – e non ha paura di fronte a niente, perché sa che sempre c’è qualcosa di più bello, grande e vero, una roccia sicura su cui costruire che non vacilla neppure di fronte alle peggiori tempeste che verranno.

Vien quasi da esultare, rileggendo la denuncia di una madre: «i miei figli non sono stati invitati alla festa del loro compagno, perché non vogliono giocare a Squid Game». Fortunati questi bambini, perché son capaci di non farsi determinare dalla moda e che probabilmente trovano a casa qualcuno che li guarda, li ascolta, li educa e li accompagna. Per questo, forse, hanno un po’ più chiaro quel che val la pena fare, quando si gioca con gli amici. E fortunati anche i loro compagni, che ora magari stanno giocando insieme a Squid Game per esorcizzare la paura di restare soli: quegli amichetti oggi “esclusi” perché apparentemente non abbastanza “grandi” per giocare a quel gioco, sono già ora un baluardo di certezza, un’avanguardia di speranza per chi, prima o poi, si renderà conto che non è desiderabile fare sempre e solo quello che salta in mente. Che c’è più forza e libertà, spesso, nel dire “no”. Per esempio, nella lapalissiana soluzione pratica e indolore allo “scandalo” Squid Game: basta dire «no» all’abbonamento a Netflix. Non è la prima volta, per altro, che dalle pagine di «iFamNews» capita di suggerirlo.

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