Last updated on Ottobre 5th, 2021 at 02:59 am
«Se la vediamo in forme diverse è perché non ce n’è una sola. Ognuna è perfetta. Anche la tua»: questo lo slogan, che vorrebbe essere ammiccante, che accompagna, su cartelloni pubblicitari oversize sparsi per tutta Milano, immagini di frutti (banane, albicocche, ciliegie, arance), ma pure ostriche, con evidente allusione ai genitali maschili e femminili, affissi per annunciare l’arrivo della terza stagione della serie britannica Sex Education sulla piattaforma digitale Netflix.
Un messaggio poco edificante, espresso per altro con ironia pruriginosa e una trivialità che si potrebbe perdonare soltanto a un ragazzino in piena tempesta ormonale, che non abbia accanto nessuno capace di educarlo alla bellezza e alla sacralità che si nascondono dietro quella realtà umidiccia e imbarazzante con cui si sta trovando a fare i conti.
Non sono ovviamente mancate le polemiche, in una Milano alle prese con l’elezione del nuovo sindaco, e non è mancata la difesa d’ufficio da parte del candidato capolista di «Milano Radicale», Lorenzo Lipparini, che plaude a una serie tv «che da sola, con risorse private, fa quello che dovrebbero fare le istituzioni: informare e sensibilizzare su temi rilevanti per la salute e il benessere delle persone come la sessualità». Non che sia facile individuare finalità educativa e totalmente altruista tra le motivazioni effettive di chi ha prodotto la serie: è noto, infatti, come l’impegno caritatevole e totalmente disinteressato non sia esattamente il core business di società come Netflix.
Il triciclo e la Ferrari
Per chi non fosse mai incappato, come invece è accaduto alla sottoscritta, in un episodio di Sex Education – e sperando di poter annoverare Lipparini nel gruppo, per salvaguardarne un briciolo la dignità – mi permetto di fornirne il canovaccio.
Il giovane protagonista, interpretato da un ottimo Asa Butterfield, già toccante interprete di Ender’s Game, figlio – nella fiction – di una sessuologa di fama nazionale decisamente incapace di fare la madre, si improvvisa a propria volta terapista sessuale, elargendo consigli e indicazioni sulle più diverse (e sinceramente inverosimili) problematiche afferenti, diciamo così, la sfera affettiva, affrontate dai suoi compagni di liceo. Otis (questo il suo nome) non ha alle spalle alcuna esperienza personale (anzi, di suo è impacciato e incasinato peggio di chiunque altro). Di contro i suoi compagni si trovano immischiati in una tale varietà di intrecci e di complicazioni che giusto degli adulti che non vivano in prima persona una vita sessuale appagante possono essere arrivati ad architettare. In pratica è come se un bambino che ancora usi le rotelle per la bicicletta spiegasse a piloti di Formula 1 il funzionamento dei motori a scoppio da corsa, avendo semplicemente sfogliato qualche rivista del padre sulle gare automobilistiche. Peraltro nella serie si parla principalmente di vicende idrauliche, in situazioni talmente surreali e con dialoghi così imbarazzanti che quasi mai hanno a che vedere con il sesso, bensì principalmente con l’erotismo – quando va bene –, se non con la mera genitalità.
Nella volgarità fastidiosa una verità molto scomoda
Quel che dovrebbe far riflettere gli adulti che guardassero Sex Education non sono tanto «gli argomenti della vita intima degli adolescenti spesso considerati tabù nella società contemporanea, ma centrali nella vita di un ragazzo», secondo la narrazione che circonda la serie.
Il vero protagonista di Sex Education, infatti, è una assenza. O forse più di una.
L’assenza, anzitutto, di un mondo di adulti che vivano rapporti stabili, affettivamente maturi, socialmente identificabili e sessualmente veramente appaganti. Non ci sono famiglie, in Sex Education, se non disfunzionali, sfasciate, incasinate. Nessun adulto propone una qualsivoglia immagine di felicità, di realizzazione, di compimento.
L’assenza, poi, di una aspirazione negli adolescenti che vada oltre una soddisfazione superficiale, momentanea, istantanea addirittura. Tutta l’esistenza è scomoda, imbarazzante, e i ragazzi appaiono costantemente in crisi, inadeguati, infelici, in cerca di qualcosa che li aiuti a dimenticare quella insoddisfazione perenne che permea ogni angolo della realtà.
L’assenza, infine, anche solo di un barlume di ipotesi di significato, dentro quel grande caos di relazioni e di emozioni che veramente la fa da protagonista nell’esperienza di un adolescente, oggi come sempre. L’uso della genitalità, a volte meno dignitosa anche di una mera pratica fisiologica, non è nemmeno lontanamente correlato alla vera finalità con cui madre natura ha dotato gli esseri viventi di un apparato riproduttivo: la riproduzione, per l’appunto. Che il sesso generi bambini è argomento da introdurre solo per l’ennesimo – scontatissimo – riferimento all’aborto come pratica di «salute riproduttiva»: non sia mai che qualche adolescente sfugga all’indottrinamento per cui la vera responsabilità sessuale ha a che fare solo con l’assassinio di innocenti nell’utero materno.
Genitali o alimenti?
Indovinatissimo il titolo dedicato dal quotidiano Il Tempo ai «maxicartelloni hot di Netflix». Genitali come alimenti, forse addirittura come junk food: per ingozzarsi senza trarne effettivo nutrimento, per noia e solitudine, in un soddisfacimento imbarazzante ed effimero.
Le immagini dei cartelloni pubblicitari, così come la serie in sé, son così fastidiosi che avremmo preferito non parlarne: di fronte a certe brutture parrebbe non valga neppure la pena. Eppure, non vogliamo sfuggire alle nostre responsabilità: esiste un modo dignitoso per parlare di sesso ai nostri figli, non sensazionalistico, non pruriginoso, nemmeno scontato. Dobbiamo ricordarcelo, anzitutto tra noi adulti, a testa alta, senza falsi perbenismi e con grande serietà. E allora anche gli orrendi, molesti, imbarazzanti cartelloni di Netflix potranno diventare una occasione di dialogo, e di speranza. Ci sono ancora uomini e donne, che sanno amare e amarsi, e proprio per questo generano figli: ecco perché abbiamo lanciato «iFamNews».
Commenti su questo articolo