Last updated on Ottobre 3rd, 2021 at 04:28 am
«In my late teens, I was accidentally impregnated by a much older man»: verso la fine dell’adolescenza, sono stata accidentalmente messa incinta da un uomo molto più grande di me. Così inizia il racconto dell’attrice statunitense Uma Thurman, su The Washington Post, racconto di una attrice ormai matura (51 anni), madre di due figli, che ricorda gli esordi della carriera, quando viveva già da sola, in Europa, «in un ambiente in cui ero spesso l’unica ragazza (kid) della stanza». Potrebbe sembrare l’incipit di un racconto drammatico sullo sfruttamento di una ragazzina da parte di un uomo “più vecchio”, colpevole di averla sedotta e abbandonata.
Tutt’altro.
Si vede che il personaggio maschile della vicenda non è abbastanza conosciuto e famoso per diventare, a distanza di una trentina d’anni abbondanti, bersaglio di qualche «Me Too». Sorvolando allegramente sulle circostanze che hanno portato alla gravidanza indesiderata – atteggiamento ormai scontato in qualsiasi genere di narrazione di questo tipo – il vero punto focale della storia è l’interruzione volontaria di quella gravidanza, il “diritto” della donna, dopo essere stata svilita, usata e abbandonata, di potere finalmente ricuperare dignità e potere su di sé e sul proprio corpo, eliminando ciò che porta nell’utero, ovvero il proprio bambino innocente e indifeso. Almeno fino alla prossima volta.
L’ossimoro assoluto: «l’aborto mi ha permesso di diventare la madre che volevo essere»
Lo struggente racconto dell’attrice, infatti, si chiude con questo giudizio: «l’aborto che ho avuto da adolescente è stata la decisione più difficile della mia vita, quella che mi ha causato angoscia allora e che mi rattrista anche adesso, ma mi ha portata a una vita piena di gioia e di amore, che ho vissuto. La scelta di non continuare quella gravidanza precoce mi ha permesso di crescere e di diventare la madre che volevo e che dovevo essere».
Significativo il cambio di registro della narrazione filoabortista: l’interruzione volontaria della gravidanza non riguarda più la scelta devastante di donne violentate o di genitori di fronte a feti gravemente malformati. Si tratta invece di donne di successo che salutano l’aborto come la strada dolorosa sì, eppure necessaria, da percorrere perché il proprio cammino verso la “realizzazione” non trovi inciampo in un accidente scomodo e intempestivo come un figlio indesiderato. La leva non è più sul dramma della violenza o della malattia, ma sulla “incapacità” di essere madri in un determinato momento in cui le energie e l’attenzione sono (e devono essere) concentrate nel tentativo di realizzare una carriera di qualsiasi tipo.
I bambini germinano spontaneamente nei ventri delle donne?
Questo genere di narrazione, però, contiene quanto meno dei sottintesi che non possono essere lasciati cadere. Parliamoci chiaro, nessuno che abbia veramente a cuore non solo i diritti, ma il bene stesso delle donne, può in tutta onestà immaginare che la vittoria per l’universo femminile in un mondo in cui è “normale” che una adolescente venga adescata, sfruttata sessualmente, usata senza alcuna cura per le possibili conseguenze e di fatto abbandonata di fronte alle responsabilità che la gravidanza “accidentalmente” incorsa comporta, sia la soppressione di quell’essere umano generato dalle proprie libere – e irresponsabili – scelte.
I bambini non germinano spontaneamente nei ventri delle donne. E le donne non restano incinte accidentalmente, perché le azioni che portano a una gravidanza sono azioni messe in atto con volontà e con arbitrio, da esseri umani consapevoli.
L’umanità nascosta nella possibilità di «controllare la propria riproduzione»
Colpisce nel segno, in questo senso, l’arguto articolo di Carl R. Trueman e Alexandra DeSanctis, Are Woman Still Human?, pubblicato sul periodico statunitense Public Discourse. Quando si discute di aborto, affermano gli autori, solitamente il dibattito verte sul concetto di «essere umano» riguardo al feto e la moralità dell’aborto è messa in discussione dalla sua definizione: procedura medica od omicidio?
C’è però un altro punto di vista, assolutamente interessante da sondare, che riguarda l’umanità della donna coinvolta. Dando credito a chi difende il diritto d’aborto, «è nientemeno che il potere di porre fine alla vita del suo bambino non ancora nato che garantisce a una donna la sua umanità, cioè l’autonomia che si addice al suo status di pari all’uomo». Come si può giungere a un giudizio così grave, violento, stridente? Il percorso è semplice: l’aborto legale è necessario alle donne «per essere in grado di controllare il proprio corpo» in una realtà che dia per scontato come «the satisfaction of sexual desire is seen as a quintessential element of what it means to flourish».
Sesso senza conseguenze: la vendetta di Beatrix Kiddo
La soddisfazione sessuale, nel mondo di oggi, è vista e vissuta come un elemento essenziale della realizzazione di sé, della propria soddisfazione, del raggiungimento del proprio bene. Essere pienamente “umani” ha a che fare con la capacità di trovare «appagamento e soddisfazione sessuale»: in questo senso «il sesso illimitato e senza conseguenze è un prerequisito per la libertà umana e la prosperità». Solo in quest’ottica le leggi contro l’aborto, e a favore della vita, possono essere considerate «restrizioni alla capacità di una donna di decidere se rimanere incinta o controllare il proprio futuro riproduttivo». Come se una donna, al giorno d’oggi, non fosse perfettamente libera di decidere se rimanere incinta o meno.
Solo così l’aborto può diventare quel “diritto” che finalmente equipara la donna all’uomo: libera di «vivere il sesso senza alcuna conseguenza» come parte essenziale della propria umana identità.
Una essenza totalmente indeterminata e la possibilità di seguire qualsiasi istinto e capriccio, purché le conseguenze non intralcino le proprie aspirazioni, qualsiasi esse siano: questo l’identikit della donna “liberata” dall’aborto.
Impossibile nascondere la nostalgia per Beatrix Kiddo, eroina del Kill Bill di Quentin Tarantino, impersonata proprio da Uma Thurman, che, brandendo la katana, pianifica e realizza una strage violentissima con l’unico fine di riabbracciare la figlioletta strappatale dal seno, eliminando tutti coloro che sono intervenuti a separarle. Una vera donna, la Kiddo, aka Black Mamba, aka Mum.
Commenti su questo articolo