Last updated on Giugno 30th, 2021 at 04:06 am
Rispondere alla domanda su cosa stia accadendo in Africa è questione complessa: lo è per chi vive nel Continente e, a maggior ragione, per chi siede a una scrivania in Italia. Capitoli e dossier si aprono con effetto domino e le informazioni, spesso mediate e non di prima mano, si affastellano, mentre, nel corso dell’anno, in tredici Paesi sono previste le elezioni presidenziali e la trasparenza dei risultati non sempre è garantita. Basti pensare alle più recenti tornate elettorali a Gibuti o nel Ciad. Oppure alla vendita alla Cina di intere porzioni di territorio, come nell’Angola delle città fantasma o nel Sierra Leone delle coste incontaminate che desidera ottenere a ogni costo un porto industriale. O ancora all’uccisione del diplomatico Luca Attanasio e del carabiniere che faceva parte della sua scorta, avvenuta in Congo il 22 febbraio.
E poi c’è l’Etiopia di Abiy Ahmed, premier del Paese dal 2018 e insignito del premio Nobel per la pace nel 2019, per aver siglato la fine delle ostilità con la vicina Eritrea, dopo un conflitto durato vent’anni. L’Etiopia del Corno d’Africa, stretta fra Eritrea, appunto, Gibuti e il suo sbocco sul mare, Sudan e Sud Sudan, Uganda, Kenya e Somalia. Colonia italiana dal 1936 al 1947, indipendente a partire dal termine del protettorato nel 1960, capitale Addis Abeba.
Un’altra città importante è Macallè, in amarico መቀሌ, Mek’elē, capitale della regione del Tigray, nel Nord del Paese, dove nonostante il premio prestigioso che celebra la pace si sta combattendo, al contrario, una guerra civile che «il mondo non vuole vedere».
A partire dal mese di novembre 2020, infatti, il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF), che considera Ahmed un leader illegittimo e alimenta le spinte secessioniste del governo regionale contro quello nazionale, fondate come accade spesso in Africa su base etnica, si scontra con l’esercito federale supportato dalle truppe eritree.
A farne le spese, come sempre, è la popolazione civile e in special modo le donne, dal momento che le violenze e addirittura gli “stupri di guerra” trovano gioco facile in una situazione in cui lo sfollamento interno o la fuga in Sudan di migliaia di tigrini, il blocco delle vie di comunicazione da parte dell’esercito federale etiope in unione alle forze eritree che impedisce l’arrivo di aiuti umanitari e infine gli arresti ai danni dei giornalisti, tutto quanto insomma rende estremamente difficile proteggere i più deboli.
E poi ci sono i preti. Il patriarca della Chiesa ortodossa etiope, Abune Mathias, ottantenne, tigrino, accusa Addis Abeba di genocidio contro la popolazione tigrina e afferma «Dio giudicherà tutto», in un video che secondo la CNN il religioso avrebbe girato agli arresti domiciliari nella sua casa nella capitale.
In seguito una lettera indirizzata al sinodo della Chiesa, ottenuta in via esclusiva da The Telegraph e confermata da alcuni sopravvissuti, ha raccontato di sacerdoti, diaconi, coristi e monaci massacrati nel Tigray negli ultimi cinque mesi. 78 persone, si afferma, uccise dai soldati dell’esercito nazionale etiope e dalle truppe eritree.
«Gergera Maryam, Adi’Zeban Karagiorgis, Kidanemihret Bosa, Taksa e il monastero di Da Abune Ayzgi sono alcune delle chiese in cui sono avvenuti i massacri dei religiosi, secondo i testimoni», «massacri» organizzati a quanto pare in modo chirurgico, nei giorni principali delle festività religiose.
La testata afferma inoltre che «The Telegraph si è rivolto al ministro dell’Informazione dell’Eritrea, Yemane Gebremeskel, e alla portavoce dell’ufficio del Primo Ministro etiope Billene Seyoum per un commento. Nessuno dei due aveva risposto al momento in cui è andato in stampa [il giornale]».
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