Last updated on Dicembre 12th, 2021 at 04:06 am
Perché mai tanto per scalpore per Inclusive Communication Guidelines, il documento predisposto dalla Direzione generale per la comunicazione dell’Unione Europea venuto alla ribalta in Italia grazie a Il Giornale e poi ritirato il 30 novembre dal Commissario per l’Eguaglianza e la non discriminazione, la Laburista maltese Helena Dalli?
Mentre il ripiegamento annuncia soltanto un pronto ritorno al tema, il vero scandalo è la protervia contro la vera identità culturale del Vecchio Continente dimostrata dalla Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen sin dal suo insediamento nel 2019.
Per esempio, ancora prima delle audizioni ufficiali dei candidati Commissari, svoltesi a partire 30 settembre 2019, il sito Internet della Presidenza finlandese di turno del Consiglio della UE (il Consiglio dei ministri europei) dimostrava grande impegno nella promozione dell’ideologia gender, annunciando un programma proteso al 2020 e oltre. Tra i protagonisti di quell’uscita vi erano la titolare a quella che allora si chiamava Commissione Giustizia, consumatori e uguaglianza di genere, poi diventata Commissione Valori e trasparenza, Věra Jourová, Socialdemocratica della Repubblica ceca, accanto ai responsabili di alcune delle più importanti organizzazioni LGBT+ europee.
Già nel 2015 la Jourová aveva predisposto un piano di azione europea pro LGBT+ e oggi è proprio a partire da quel suo documento che si dipanano le iniziative della Commissaria Dalli.
Sarebbe inoltre più che opportuno considerare la guida alle buone prassi per il riconoscimento giuridico del gender, pubblicata nel novembre 2019 dall’International Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer and Intersex (LGBTQI) Youth & Student Organisation (IGLYO), una rete di 96 organizzazioni nazionali e locali attive nei Paesi rappresentati del Consiglio d’Europa. Sono infatti documenti come questi che poi finiscono per ispirare le politiche ufficiali di Bruxelles.
Del resto la stessa ONU, nel maggio 2020, ha ammannito suggerimenti al personale interno per un comportamento e un linguaggio inclusivi, corredati da un corso di «aiuto all’apprendimento» della durata di tre settimane, oltre che di fatto adesso chiedere ai Paesi membri di “schedare” tutti gli oppositori all’ideologia LGBT+.
Poi c’è lo stillicidio dei ricatti messi in campo da Bruxelles contro la Polonia e l’Ungheria, ree di non adeguarsi alla voce del padrone, alla fine concretizzatisi nel taglio dei fondi a Varsavia e nell’accanimento contro Budapest per avere approvato una benemerita legge a tutela dei minori, che fra l’altro vieta anche l’indottrinamento LGBT+.
Ora, è la strategia quinquennale per l’uguaglianza LGBT+, lanciata dalla Dalli nel novembre 2020, il terreno fertile da cui sono poi germogliate le linee guida contro il Natale di qualche giorno fa, seguita dalla pagliacciata con cui Bruxelles, in marzo, si è auto-votata «zona di libertà» LGBT+ con una risoluzione proposta da Roberta Metsola, deputata del Partito Popolare Europeo, oggi candidata alla guida del Parlamento Europeo per il prossimo biennio.
Mentre sul Commissario Dalli si allunga l’ombra del filantropo George Soros, la lettera del 14 settembre 2020 con cui la lobby filoabortista dell’Europarlamento ha chiesto alla Commissione di non nominare un Rappresentante europeo per la libertà religiosa (ruolo tutt’ora scoperto) non è allora certo un segnale isolato.
Le stesse parole della von der Leyen, in discorsi del 2020 e pure del 2021, che, evocando il vuoto di indefiniti «valori europei», si soffermano solo sull’importanza del rispetto dell’ambiente e della diversità LGBT+, non sono forse emblematiche?
È per questo che, oltre allo scandalicchio sul Natale, l’attacco non cesserà.
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