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«What you say matters». Ovvero, «quello che dici conta». Inizia con questa frase un tweet dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) che invita a utilizzare «un linguaggio neutro rispetto al genere» sessuale per evitare discriminazioni nei confronti delle donne. E giù una lista di termini sbarrati con a fianco la versione politicamente corretta: “policeman” (poliziotto) diventa “police officer”, “fireman” (pompiere) trasformato in “firefighter”, “husband/wife” (marito/moglie) sciolti nel generico “spouse”, e così via.
Alma Sabatini, la pioniera
È alquanto pittoresco che l’ONU non abbia di meglio cui pensare che alla decostruzione del vocabolario. Ma allo stesso tempo non stupisce. La battaglia per una presunta emancipazione femminile modificando le parole affonda le radici nel tempo. In Italia risale al 1987 il testo intitolato “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, della scrittrice femminista Alma Sabatini (1922-1988) e pubblicato dalla presidenza del Consiglio dei ministri, che all’epoca era di matrice democristiana. Si trattava di un vademecum lessicale, simile a quello odierno dell’ONU, ante litteram. La Sabatini si dilungava in un elenco di forme linguistiche «sessiste» da evitare, proponendo forme alternative. Ecco allora, solo per fare qualche esempio, che «il popolo romano» sostituiva «i romani», «le persone della strada» subentravano a «l’uomo della strada», «solidarietà» in ragione di «fraternità». Inoltre l’attivista femminista chiedeva di eliminare dal vocabolario il termine «signorina» perché considerato «dissimmetrico» rispetto a «signorino» per l’uomo. Non mancava poi la modifica al femminile dei nomi di mestieri e cariche: nell’opera della Sabatini figuravano così, per la prima volta, «consigliera comunale», «ambasciatrice», «senatrice», «medica», «avvocata», nonché due lemmi oggi divenuti arcinoti: «ministra» e «sindaca».
Laura Boldrini, la succeditrice
L’ossessione per questa sorta di riequilibrio linguistico non accese il dibattito pubblico nel 1987, ma covò come un fiume carsico per poi esplodere parecchio più tardi. Se ne ebbe qualche efflorescenza nei primi anni Duemila, quando, sugli striscioni dei centri sociali, si cominciò a sostituire la desinenza delle parole con un più neutro asterisco. Così i «compagni» diventano i «compagn*». Dalla vernice dei militanti ai documenti istituzionali il passo fu breve. Nel 2013 venne eletta presidente della Camera dei deputati una donna, Laura Boldrini, con un passato all’ONU, accesa sostenitrice di istanze radical.
Appena subentrata a Gianfranco Fini, l’esponente di Sinistra Ecologia Libertà si fece subito notare per la modifica (non senza costi a carico dei contribuenti) della carta intestata: «il presidente» divenne «la presidente». E poi ancora due anni dopo, nella propria veste istituzionale, scrisse una lettera a tutti i deputati, al «caro collega» e «alla cara collega», per invitarli a usare declinazioni femminili nei propri interventi in parlamento, nelle interviste e negli scritti. La Boldrini rilevava che «[…] le donne hanno anche il diritto ad essere definite rispetto al genere di appartenenza, di non essere espropriate della loro identità quando ricoprono dei ruoli che storicamente sono stati riservati agli uomini e dunque declinati al maschile».
Non tutte le donne, però, sembravano lamentare questa “espropriazione di identità” da sopperire con lo stravolgimento del vocabolario. Lo dimostra una rivolta scatenata dalle dipendenti di Montecitorio, le quali scrissero una missiva di protesta alla Boldrini. «Il rispetto della parità di genere», vi si leggeva, «non può comportare l’imposizione della declinazione al femminile della professionalità, in presenza di una diversa volontà della lavoratrice». Come a dire: siamo donne, l’ossessione di un linguaggio discriminatorio e maschilista non ci appartiene, amiamo la lingua italiana così com’è e non ci prestiamo a queste battaglie di folclore. Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che non mancò di esprimere dissenso rispetto alla «trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana». L’altolà dell’ex capo dello Stato e delle stesse rappresentanti del gentil sesso, tuttavia, non arrestò la cavalcata boldriniana contro il lessico “sessista”. L’allora presidente della Camera se ne fece interprete anche all’Accademia della Crusca.
La battaglia internazionale
Quella della Boldrini e dell’ONU è una battaglia che raccoglie un diffuso sostegno. In Italia e all’estero si contano diversi alfieri della lingua “gender free”. Spicca il premier canadese, Justin Trudeau, che nel 2018, durante un dibattito pubblico, redarguì una ragazza “rea” di aver pronunciato la parola «mankind», «genere umano». La correzione di Trudeau fu telegrafica: «Noi preferiamo dire peoplekind», dove «man» scompare per il neutro «people», con il tutto che però finisce per significare un surreale “genere gente”… Del resto nello stesso anno il Canada modificò l’inno nazionale sostituendo la parola «figli» con il neutro «noi». Ancora non si è arrivati a tanto in Italia, dove il titolo dell’inno resta Fratelli d’Italia e non un ridondante e ridicolo“Sorelle e fratelli d’Italia” visto che “Fratell* d’Italia” sarebbe un cortocircuito. Ma chissà se la Boldrini o chi per lei non ci abbiano fatto un pensierino.
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