Oggi, 8 maggio, ricorre in numerosi Paesi la Festa della mamma. Esattamente due mesi fa, l’8 marzo, tradizionalmente Festa della donna, una mamma, una donna, assumendo il proprio incarico di docente della facoltà di Teologia nell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum prestava giuramento di fedeltà al magistero della Chiesa Cattolica, davanti al rettore, secondo le norme del Diritto canonico. Ribaltando d’un colpo il pregiudizio secondo il quale la Chiesa Cattolica sarebbe misogina.
Si tratta di Giorgia Brambilla, membro del Comitato di Etica clinica dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, professore straordinario di Bioetica nell’Ateneo citato, autrice. Sposata, madre di tre bambini ancora piccoli, la professoressa Brambilla parla con «iFamNews» di famiglia, di figli, di lavoro.
La prima domanda, professoressa, è piuttosto scontata. Come concilia una professione impegnativa, una passione come quella per la scrittura e la famiglia?
Il conflitto che si crea nella vita delle mamme tra figli e lavoro è già una sconfitta, così come l’idea del dover “conciliare” famiglia e lavoro. Meglio sarebbe approfondire e realizzare una integrazione tra le due dimensioni, che si trovano entrambe nel cuore e nell’identità della donna. È peraltro normale e logico che una donna, conformemente al proprio tipo di formazione e ai propri interessi, scopra in sé un’attitudine per la vita professionale. Per molte donne, il lavoro è avvertito come parte integrante della chiamata a realizzare i propri “talenti” a rispondere attraverso un’attività professionale dei doni ricevuti, consentendo ad altre persone di beneficiare di tali capacità o competenze.
Noi dobbiamo puntare a una valorizzazione della femminilità che non escluda la donna dalla scelta professionale, ma la integri in una visione che abbraccia “il genio e la missione” della donna quale insostituibile custode della vita. La donna porta la propria vocazione alla maternità, il proprio essere sempre potenzialmente madre, sia fisica, psicologica, sociale, spirituale, in qualunque cosa faccia. In ogni atteggiamento, la donna realizza la propria naturale disposizione, ovvero la vocazione fondamentale, alla maternità, cioè al dono di sé e all’accoglienza dell’altro, così come ci ricorda san Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem, laddove si legge che la donna «[…] non riesce a cancellare la disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal “principio”». L’apporto specifico al mondo del lavoro della donna, dunque, è proprio quello di prendersi costantemente cura dell’essere umano, di introdurre in ogni settore della società le attenzioni e le accortezze di una madre.
Per quanto mi riguarda, non solo la maternità non è stata un impedimento alla mia carriera, ma anzi posso dire che l’essere madre mi ha senza dubbio resa una professionista migliore, sviluppando in me tante abilità umane di cui faccio tesoro nel mio lavoro. Nessuna donna dovrebbe dare retta a chi la svaluta a tal punto da portarla ad un ideologico aut aut tra famiglia e lavoro, tra maternità e carriera.
A me è successo ed è stato doloroso. Tuttavia, questa esperienza oltre ad aver dato a me delle risposte, mi permette oggi di aiutare le mie studentesse che spesso hanno i miei stessi dubbi di allora. Una volta, una persona mi ha detto: «Ora che ti sei sposata (avevo 25 anni), non ce la farai a completare gli studi». E io, dopo il matrimonio, ho preso una laurea triennale, una magistrale e un dottorato. Un’altra mi ha detto: «Hai già un figlio e sei di nuovo incinta: non ti assumeranno mai». Ma poco dopo io e il mio pancione di 7 mesi abbiamo varcato la soglia dell’ufficio risorse umane di un’università come l’APRA che ha sempre considerato la mia maternità un valore aggiunto. Poi un’altra mi ha detto: «Lei è una donna, cosa crede di poter fare in un’università pontificia?». Ricordo che le donne sono state ammesse a frequentare le facoltà teologiche solo a partire dal 1965. E il mio primo incarico da professore associato è stato organizzare un corso di aggiornamento di 2 settimane, interamente dedicato alla Bioetica dalla prospettiva della donna, da cui è nato un libro che nel 2019 ha vinto un premio letterario “al femminile”, come primo classificato della sezione scientifica. Ma soprattutto, 10 anni dopo, sono diventata professore straordinario in una facoltà di Teologia proprio nel giorno della Festa della donna.
Di recente, la partenza nello Spazio di Samantha Cristoforetti, astronauta e aviatrice, ha fatto discutere se sia un bene oppure no che una mamma lavori. Qual è la sua opinione, ma soprattutto la sua esperienza?
Attingo al linguaggio della bioetica, per dire che il lavoro nella vita di una donna-mamma non va vissuto né come un accanimento, «devo lavorare a tutti costi, perché io valgo..», né come un abbandono aprioristico, «lavoro ergo sono una pessima madre». No. Va considerato una vocazione nella vocazione. Nel mio cuore io ho sempre sentito che c’era posto, con le dovute priorità, per entrambe.
Vivo l’essere madre con i miei figli, ma sperimento di esserlo in certo qual modo anche con i miei studenti. Vivo l’obbedienza (o almeno ci provo!) con mio marito, ma anche nei confronti dei miei superiori. E li ringrazio infinitamente entrambi perché è grazie alla loro guida virile e paterna che sono oggi la donna che sono. Vivo con gioia il sacrificio e l’abnegazione in famiglia, ma anche sui libri e poi dietro la cattedra, perché questo porta beneficio agli altri.
I momenti duri non mancano, specialmente perché non abbiamo nonni o parenti che possano aiutarci. Ma, proprio perché di “vocazione” si tratta, il Signore mi ha sempre donato «la forza di un bufalo» (Sal 91,11).
Le “super-mamme” non esistono (e menomale!). Così come non esistono donne di serie A, le mamme casalinghe, e donne di serie B, le mamme lavoratrici (o viceversa!), giudicate tali in base al pensiero di appartenenza. Entrambe, in fondo, sono chiamate alla stessa cosa: abbracciare il disegno che Dio ha sulla femminilità, calata nella singola persona.
Lasciamo gli stereotipi a chi non conosce la verità dell’essere umano e preferisce perdere tempo a fare ideologie. Noi teniamoci stretta la Bellezza!
Facendo riferimento all’«inverno demografico», definizione perfetta coniata da mons, Michel Schooyans (1930-2022), scomparso di recente, per indicare il vertiginoso calo delle nascite nel mondo Occidentale, lei vede ipotesi di soluzione?
Uno dei metodi maggiormente suggeriti dai demografi per invertire il pesante calo demografico è quello di favorire l’immissione dei giovani nel circuito lavorativo, al fine di assecondare e rendere possibile il loro desiderio di costruirsi un futuro. È ovvio che questa misura da sola non basta; occorre un mutamento radicale di prospettiva che permetta finalmente di considerare la maternità come un “lavoro” indispensabile per lo sviluppo della società. Questo renderebbe possibile una reale integrazione fra vocazione alla famiglia e vocazione professionale.
Fra le cause connesse alla situazione demografica, infatti, c’è sicuramente la condizione della donna: il tardivo accesso al matrimonio e alla maternità, la ridotta fertilità legata allo stile di vita, le ansie economiche e professionali. In particolare, in Occidente si fatica ad armonizzare lavoro femminile e maternità. E quando tale armonia non si realizza, il più delle volte le donne scelgono il lavoro, per necessità o per altri motivi, sacrificando così la famiglia e la procreazione.
Ma il nemico della donna non è di per sé il lavoro. Il nemico è l’appiattimento delle differenze che non può che portare a un impoverimento della donna e di tutta la società, con la deformazione o la perdita di quella ricchezza unica e di quel valore propri della femminilità. Tra questi, il più importante è senza dubbio la maternità. Simulare il modello maschile è in realtà l’emblema dell’alienazione del lavoro femminile, che non solo annichilisce la bellezza della donna, ma impoverisce pure la reciprocità della relazione umana fra uomo e donna nel rispetto della differenza.
È certamente vero che la responsabilità della donna all’interno della famiglia potrebbe rendere alcuni ruoli professionali incompatibili con “la casa”, ma la donna questo lo sa e laddove non sia aggredita da pressioni ideologiche spersonalizzanti o da colpevoli sensi di frustrazione indotta, sa compiere le proprie scelte in funzione del bene maggiore.
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