Anche Davos promuove la narrazione LGBT+

L’incontro annuale del World Economic Forum ha evidenziato la centralità del «target» omosessuale e transessuale per la pubblicità e i media

Dopo due anni di intervallo dovuti alla pandemia di CoVid-19, il meeting annuale del World Economic Forum (WEF) è tornato a svolgersi in presenza, a Davos, in Svizzera, dal 22 al 26 maggio.

Il WEF, che si definisce «[…] l’organizzazione internazionale per la cooperazione pubblico-privato», afferma nella propria mission di coinvolgere «[…] i principali leader politici, economici, culturali e di altro tipo presenti nella società per dare forma alle agende globali, regionali e di settore».

Una di queste agende è, senza ombra di dubbio, l’agenda LGBT+, come si evidenzia da uno degli articoli presenti sul sito web del Forum, dal titolo Why LGBTQ representation should be a priority for business and media. Secondo l’articolo, in breve, il mondo della comunicazione e dell’advertising dovrebbe incentivare e diversificare la presenza di persone LGBT+, per esempio nei programmi televisivi e negli spot pubblicitari, per due ordini di ragioni.

Il primo motivo sarebbe quello di aumentare l’inclusione e combattere la discriminazione di cui le persone omosessuali o transessuali potrebbero essere vittime. Il secondo motivo, meno nobile e più prosaico, sarebbe invece quello di vendere di più.

Gli autori dell’articolo, dopo aver rilevato alcune criticità che giudicano preoccupanti nell’atteggiamento verso le persone LGBT+, riportano dati statistici precisi. «Un sondaggio Gallup del 2021», scrivono, ha rilevato che il 7,1% degli [abitanti degli] Stati Uniti si identifica come lesbica, gay, bisessuale o transgender, il doppio della percentuale del 2012, quando Gallup ha iniziato a monitorare la comunità. Forse ancora più importante, un membro della Gen Z su cinque (21%) ora si identifica come lesbica, gay, bisessuale o transgender e questa percentuale è quasi raddoppiata in soli 5 anni».

Secondo la società di analisi statunitense, nota per i sondaggi d’opinione condotti a livello mondiale, cioè, negli Stati Uniti d’America una persona su 5 fra i nati nel periodo 1997-2012 apparterrebbe alla comunità LGBT+ e tale dato sarebbe in costante aumento. Se, come spesso accade, ciò che avviene a quelle latitudini riverbera anche sugli altri Paesi, i numeri diventano elevati.

Non stupisce quindi che Davos, dove il fiuto per gli affari certamente non manca, sottolinei come un target già così ampio e comunque in via di sviluppo non possa essere trascurato. Soprattutto se, come continuano i due autori, «la maggior parte degli americani non solo si sente a proprio agio nel vedere le persone LGBT+ nei media e nelle pubblicità, ma in realtà guarda più favorevolmente ai marchi che includono LGBT+, secondo [l’associazione di attivisti] GLAAD e il rapporto LGBT+ Inclusion in Advertising & Media di GLAAD e P&G».

L’articolo cita anche altri studi incentrati su marketing e pubblicità, che presentano tutti i medesimi risvolti: le persone LGBT+ debbono essere rappresentate in maniera ancora più variegata, completa, esaustiva sugli schermi televisivi, nelle serie TV di prima serata, nei film e negli spot, in modo da favorire l’accettazione culturale della comunità e rendersi graditi al grande pubblico.

E questo nonostante non sembri proprio che il piccolo schermo la trascuri, se in base al rapporto Where We Are on TV della GLAAD «[…] la prima edizione del rapporto, pubblicata 26 anni fa, contava 12 personaggi regolari LGBT+ in totale, mentre la più recente contava 637 personaggi regolari e ricorrenti LGBT+, 53 volte di più».

È evidente come le finalità del WEF siano nominalmente quelle dell’accettazione sociale e culturale delle persone omosessuali e transessuali, da proteggere come minoranza, laddove però sono identificate come un importante target di marketing, destinatario di una comunicazione specifica finalizzata a favorire le vendite di prodotti anche culturali, di beni e di servizi. Targhettizzate, insomma, o per meglio dire ghettizzate.

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