Allo studio il trapianto di utero per persone transgender

Da culla della vita a mero contenitore, le implicazioni etiche non sono contemplate pur di raggiungere obiettivi ideologici

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Last updated on Settembre 23rd, 2022 at 06:14 am

I trapianti di utero sono da tempo una realtà, ancorché non così frequente né così nota. Anche «iFamNews» ha gioito, non più di venti giorni fa, alla notizia della nascita di Alessandra, la bambina nata a Catania dopo che la sua mamma ha ricevuto il primo trapianto dell’utero realizzato nel nostro Paese.

Il primo parto in assoluto in seguito a un trapianto di utero è avvenuto in Svezia, nel 2014. Alla fine del 2021, in tutto il mondo, erano stati realizzati circa 90 interventi analoghi ed erano venuti alla luce una cinquantina di bambini.

Oggi la discussione investe però un tema differente, cioè la possibilità di impiantare uteri da donatrici a persone transgender, individui, cioè, nati maschi, che abbiano effettuato un percorso di «transizione» anche chirurgica al sesso femminile. Il trapianto dell’utero costituirebbe un’ultima tessera nella costruzione a tavolino del mosaico di una nuova identità.

Mats Brännström, svedese, docente di Ostetricia e ginecologia e primario nell’Università di Göteborg, è anche il medico che ha contribuito alla nascita del primo bambino nato dopo un trapianto di utero. Oggi, afferma di ricevere spesso e-mail da persone, riconosciute come maschi alla nascita, che chiedono informazioni sulla procedura. «Ricevo e-mail da persone di tutto il mondo», ha dichiarato il professore al sito web di informazione Euronews Next. «Dico loro che non abbiamo fatto abbastanza ricerche, ma penso che sarà possibile in futuro. Potrebbero volerci cinque o dieci anni, direi», aggiunge.

Perché, naturalmente, la nuova frontiera del trapianto di utero potrebbe non servire alle donne per portare in grembo un figlio, bensì agli uomini per soddisfare il proprio desiderio di «maternità», a dispetto per esempio della delicatissima questione dell’assetto ormonale della persona, che gioca un ruolo di importanza assoluta per la salute specie nell’individuo adulto di sesso femminile, sì, la donna, insomma, e dei figli che mette al mondo.

Non si pone e non pone «limiti etici», il dottor Brännström. Né lo fanno Stephen Wilkinson e Nicola Williams, che si occupano di studiare le implicazioni etiche della riproduzione umana nell’Università di Lancaster, nel Regno Unito. «Ci sono sicuramente ragioni basate sull’uguaglianza, sufficienti per prendere in considerazione i trapianti di utero nelle donne transgender», afferma infatti Williams, docente di Etica della riproduzione umana nel dipartimento di Politica, filosofia e religione dell’ateneo britannico.

«In collaborazione con altri ricercatori, Wilkinson e Williams hanno condotto un’indagine su 182 donne transgender per studiare le loro aspirazioni riproduttive. Più del 90% degli intervistati ha indicato che un trapianto di utero potrebbe migliorare la qualità di vita e alleviare i sintomi della disforia di genere, e la maggior parte concorda sul fatto che la capacità di gestazione e parto aumenterebbe la percezione della propria femminilità».

Laura O’Donovan, ricercatrice associata che lavora nella Lancaster University, sovrappone alle considerazioni etiche anche quelle legali e si chiede per esempio se negare tali trapianti a donne transgender violerebbe la normativa contro la discriminazione, in base all’Equality Act del 2010. «Nel Regno Unito per esempio» ha affermato la O’Donovan «con l’Equality Act sarebbe illegale discriminare in tal senso in base al sesso di qualcuno».

Chloe Romanis, docente associato di Bioetica nell’Università di Durham, sempre nel Regno Unito, e ricercatrice nella Harvard University, negli Stati Uniti, tratteggia uno scenario a dir poco sconcertante. La professoressa Romanis considera i trapianti di utero «[…] solo come uno nell’intero spettro della tecnologia di gestazione assistita, una piccola parte di un futuro tecnologico molto più ampio per la gravidanza assistita che comprende anche cose come la maternità surrogata e persino placente artificiali o entità che potrebbero condurre una gestazione all’esterno del corpo».

«Penso che queste tecnologie», ha concluso, «abbiano il potenziale per cambiare davvero il modo in cui pensiamo alla gestazione assistita».

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