Last updated on Settembre 25th, 2021 at 03:34 am
Sembra che l’aborto non sia omicidio. Non “sembra”, proprio come, nella Summa Theologiae, san Tommaso d’Aquino (1225-1274) poteva affermare «videtur quod Deus non sit», «sembra che Dio non esista».
All’apparenza l’aborto – specialmente quello farmacologico, così cool in epoca di pandemia – sembra sempre più la soluzione veloce e relativamente semplice a problemi femminili “drammatici”. Come sarebbe stato possibile, per esempio, all’attrice americana Michelle Williams vincere il Golden Globe nel 2020, se non avesse potuto abortire il proprio bambino?
Condividono questo giudizio le 500 atlete statunitensi che hanno chiesto pubblicamente alla Corte Suprema federale di tutelare i diritti sull’aborto loro e implicitamente di tutti, con riferimento evidente alla legge varata il 1° settembre dallo Stato del Texas, che invece salva vite umane proprio nel momento in cui la vita è più fragile, dentro il ventre materno.
Limitare l’accesso all’interruzione di gravidanza costringerebbe infatti molte atlete a «sacrificare le proprie aspirazioni», e questo con effetto «devastante».
Ora, per quanto arduo, fingiamo che l’aborto non sia un omicidio. Immedesimiamoci, cioè, nelle 500 atlete suddette. Sono donne (e oramai non è più scontato neppure dire questo) dedite a una disciplina sportiva. Donne, dunque, che usano del proprio corpo per ottenere performance e obiettivi mancare i quali parrebbe «devastante». Donne, immaginiamo, capaci per questo di sottoporsi ad allenamenti estenuanti, sacrificando gran parte del tempo e delle energie. Donne che seguono sicuramente diete personalizzate, ritmi di allenamento intensivi. Donne dotate di grandissima determinazione, autodisciplina. Donne disposte a tutto, pur di centrare i propri obiettivi agonistici.
Come è possibile, allora, che proprio queste donne arrivino a considerare l’aborto un “diritto fondamentale” loro alleato nel raggiungimento dei propri scopi di vita?
Facciamo un passo indietro. L’interruzione volontaria della gravidanza viene presa in considerazione davanti a una gravidanza indesiderata. Tutta la narrazione che ha portato alla depenalizzazione (prima) e alla celebrazione (ora) dell’aborto come diritto umano fa riferimento a “donne abusate”, a “gravissime malformazioni del feto” o ancora a donne schiave di mariti padroni e violenti. Situazioni limite in cui una donna, già gravemente provata dalla vita, viene “aiutata”, “sollevandola” dal peso della gravidanza e della maternità (scontatamente considerate solo intralcio ulteriore a una possibilità di vita dignitosa).
Qui però non si sta parlando di donne così, vittime fragili di un mondo governato dal «maschio tossico». Qui si parla di atlete, donne che hanno scelto liberamente di intraprendere una determinata carriera e che modellano la propria vita in base a quest’aspirazione. Donne attente all’alimentazione, al peso, allo stile di vita. Che probabilmente sono costrette a sacrificare l’ambito sociale e familiare per raggiungere l’agognata medaglia.
Ebbene, donne del genere sono veramente così convinte di essere incapaci di rimanere incinte, cioè incapaci di riconoscere i ritmi di fertilità del proprio corpo e di conseguenza di “contenersi” in quei – pochi – giorni al mese di fertilità? Donne così determinate, capaci di sostenere regimi alimentari e di allenamento rigidissimi, pieni di rinunce e di sacrificio, cadono poi in preda a istinti inarrestabili che le rendono davvero incapaci anche – eventualmente – di utilizzare uno o più metodi contraccettivi tanto facilmente fruibili ovunque e per chiunque – sempre meglio di quel che potrebbe non sembrare, ma a tutti gli effetti è e resta un omicidio – e vivono nella paura, acuta e pressante, di una gravidanza indesiderata, tanto da dover scrivere alla Corte Suprema di Washington per appellarsi contro una legittima legge promulgata da uno Stato legittimo qual è il Texas?
Ma che, davvero?
Forse c’è sotto ben altro, altro che le medaglie. E ancora: queste donne, che con il proprio corpo lavorano tutti i giorni, tutto il giorno, che dal proprio corpo si aspettano prestazioni e soddisfazioni, pensano veramente che intervenire farmacologicamente o chirurgicamente su quello stesso corpo sia una passeggiata di salute? Un bene supremo da difendere contro la devastante possibilità di perdere un premio o un riconoscimento? Sono davvero certe che il corpo di una donna che ha abortito – magari più volte – sia un corpo più sano, più performante, più atleticamente valido di un corpo che ha gestato e allattato?
Per non parlare delle conseguenze psicologiche di un aborto, in un momento in cui la fragilità psicologica degli atleti è diventata argomento significativo, anche nelle recenti Olimpiadi di Tokyo. Come non prendere nemmeno in considerazione gli effetti “devastanti” della consapevolezza di essersi liberati di un figlio in vista di una medaglia – ammesso che poi la medaglia arrivi davvero?
Sembra che l’aborto non sia un omicidio. Siamo costretti a trovarci quasi d’accordo: la mentalità abortista, infatti, non è solo una mentalità omicida. È anche una mentalità profondamente retrograda, maschilista, incapace di riconoscere alle donne e al loro corpo il valore e la dignità che hanno. Incapace di riconoscere la grandezza dell’esperienza della maternità, il dono che un figlio è per una famiglia. Una mentalità che non sa riconoscere la competenza delle donne nel riconoscere e nell’assecondare i ritmi del proprio corpo. Una mentalità che sottovaluta le conseguenze psicologicamente devastanti per la donna di un evento che non si esaurisce nell’assunzione di una pillola o in un day hospital di poche ore.
L’aborto è effettivamente un omicidio, che elimina dalla faccia della Terra un essere umano irripetibile, unico, generato per l’eternità. Ma la mentalità abortista è pure peggio, perché oltre a eliminare un essere umano, svilisce e abbrutisce il concetto stesso di maternità, di femminilità, di umanità, tutti sacrificabili in vista di qualcosa che apparentemente luccica (una statuetta o una medaglia, grossa differenza non c’è), ma ne siamo certi, non ha nulla a che vedere con il compimento di sé.