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Sesso fuori binario. I «papà cavallucci»

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Sesso fuori binario. I «papà cavallucci»

L’identità “fluida” dei cosiddetti “papà che partoriscono”, tripudio ultratrans

Cristina Tamburini di Cristina Tamburini
19/01/2021
in Famiglia
1.8k
Reading Time: 5 mins read
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Sesso fuori binario. I «papà cavallucci»

Image by Pexels from Pixabay

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Last updated on marzo 15th, 2021 at 09:52 am

Li chiamano «seahorse dad», in italiano «papà cavalluccio». In realtà sono individui che si identificano come «persone trans, female to male», cioè donne che non si riconoscono nel sesso femminile con cui sono nate e che per questo hanno iniziato la cosiddetta «transizione verso il genere maschile», ma che scelgono di mantenere un apparato riproduttore “funzionante” e quindi di portare avanti una gravidanza al fine di dare alla luce un figlio. Il riferimento è al fatto che, nella specie dei cavallucci marini, la femmina depone le uova in una sacca incubatrice situata nel ventre del maschio, il quale successivamente dà alla luce, con parto espulsivo, fino a mille piccoli ippocampi di pochi millimetri. Per quanto riguarda il genere umano, par che per il momento le gioie del travaglio siano però ancora solo riservate alle portatrici di geni XX, seppure alcune di queste si identifichino nel genere maschile.

Ultratrans

È il caso, tra i più famosi seahorse  dad, di  Danny Wakefield, che ha documentato su Instagram tutta la gravidanza fino al momento della nascita della bambina, proprio come ha fatto Bennett Kaspar-Williams, altro «papà cavalluccio». Entrambi hanno affidato ai social network il compito di «diffondere su ampia scala una maggiore cultura della consapevolezza», si legge in articoli celebrativi tanto dei “lieti eventi” quanto della loro sovraesposizione mediatica. Ma c’è anche chi, come Kayden X Coleman ha già affidato ai social la seconda gravidanza e propone consulenze, webinar e workshop riguardanti la TransMasculine Fertility & Birthing come tematica legata ai diritti transgender. D’altra parte «birth is not binary», afferma con forza King Yaa, «Queer Birthworker» che propone un corso – a pagamento – per full spectrum birthworker, cioè per persone «di supporto alla gravidanza» – le ormai famose doule – «a spettro completo», e perciò anche per le «gravidanze al di là del genere binario».

Il percorso attraverso il quale un individuo transgender decide di interrompere le cure ormonali necessarie per la “transizione” al fine di generare un figlio è illustrato nel documentario Seahorse: The Dad Who Gave Birth. Narra la storia di un giornalista del quotidiano britannico The Guardian, Freddy McConnell, genitore di un bambino da lui partorito nel 2019. Dopo un intervento di doppia mastectomia – significativamente tutti gli esempi citati di «seahorse dad» non allattano i propri figli, in quanto sprovvisti di ghiandole mammarie, precedentemente asportate per far corrispondere l’aspetto fisico alla percezione di sé – e l’assunzione di ormoni maschili a partire dai 25 anni di età, Freddy ha deciso di smettere di assumere testosterone, andando incontro a tutte le conseguenze del caso, come la ripresa del ciclo mestruale, condizione indispensabile per concepire, ovviamente tramite donatore di sperma. «Sia io che il mio partner abbiamo le ovaie», spiega Freddy nel documentario. Il partner successivamente decide di non voler più diventare genitore e così Freddy continua nel percorso in solitaria, o, meglio, sostenuto in modo particolare dalla madre, che afferma di essere stata così contenta della sua gravidanza da pensare che tutti, prima o poi. dovrebbero essere “incinti”, «in particolare gli uomini».

L’identità

Al di là dell’immediato – e comprensibile – sconcerto di fronte alle immagini di individui con barba e pancione, spessissimo ritratti a torso nudo, quasi ostentando il petto villoso e le cicatrici delle mastectomie, e fingendo di non considerare quel piccolo, insignificante particolare che appare quasi assente nelle succitate narrazioni – cioè l’identità e la dignità dei bambini gestati e generati da madri/padri discutibili anzitutto, e quanto meno, per la rimbombante sovraesposizione mediatica – molte sono le riflessioni sollevate da eventi di tal genere, così come dalle conseguenti celebrazioni mainstream.

Evitando qualsiasi moralismo – più o meno giustificato – più utile è l’indagine della radice antropologica che porta a esperienze di vita così intensamente – e forse dolorosamente – vissute. È così necessario tornare a far riferimento al fenomeno, tutto gnostico, del liberalismo contemporaneo, che identifica «qualsiasi istinto, percezione di sé, pulsione passionale, come specifica della propria persona, fino a radicalizzare questo processo: l’identità stessa della persona non esiste perché è fluida e vive in una società altrettanto fluida», per usare le parole del filosofo bioeticista Pierluigi Pavone.

La propria identità personale, cioè, anzitutto identificata nell’appartenenza a un corpo materiale che non “è” l’individuo ma “è dell’individuo”, viene percepita come limite, come gabbia che impedisce la realizzazione di sé: realizzazione che consisterebbe nella piena possibilità di autodeterminarsi in base a qualsiasi “sentimento” o “percezione”. In questo senso l’identità, ben lungi dall’essere data, non solo viene considerata indeterminata, ma “reversibile”: quel che sento e che percepisco oggi non è scontato corrisponda al mio sentire e al mio percepire futuri. Per questo una ragazzina di 15 anni può sottoporsi a un intervento di mastectomia e mettere poi in campo, a 16 anni, una raccolta fondi per ricostruire il seno sradicato l’anno precedente. Per questo una donna convinta di non appartenere al “genere assegnato” può iniziare a sottoporsi a trattamenti ormonali e chirurgici invasivi, per poi sospendere, più o meno temporaneamente, la transizione, nel desiderio di «generare un figlio proprio, con il proprio corpo».

Pseudoromanticismo

Ed è un vero dramma l’affacciarsi di una società in cui l’estrema instabilità nella percezione di sé – condizione di cui certo non è possibile considerare il singolo individuo “colpevole” – non venga supportata e accompagnata per quello che è – cioè una fragilità dell’io, da sostenere nel faticoso e spesso doloroso percorso di accettazione della propria condizione data –, ma piuttosto celebrata, favorita, spammata in migliaia di fotogrammi glitterati, che annunciano con gioia “finalmente tutto è possibile!”.

Fino all’inganno squisitamente semantico delle definizioni narrative, nello pseudoromantico riferimento ai «papà cavalluccio». Spiace rompere l’incantesimo, ma no, nel genere umano gli uomini ancora né mestruano, né travagliano, né partoriscono. Checché ne dica Red Tent Australia o chiunque altro.

Tags: Vetrina
Cristina Tamburini

Cristina Tamburini

Cristina Tamburini, laureata in Filosofia con una tesi in Antropologia filosofica sull'utilitarismo contemporaneo, moglie e mamma di sette figli, non ha mai abbandonato lo studio e la passione per l’antropologia filosofica, l’etica e la bioetica. Ha tradotto in italiano diversi testi, fra i quali Azione e condotta: Tommaso d’Aquino e la teoria dell’azione di Stephen L. Brock e Intenzione di G. Elizabeth M. Anscombe, estendendo i propri interessi alla Teologia (in particolare all’Escatologia e alla Dottrina sociale della Chiesa). Ha curato il blog Sì, sono tutti miei! per raccontare e approfondire il maternage e la quotidianità in una famiglia numerosa.

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