Who wants to live forever? Eutanasia vs immortalità

Il corto circuito di una ragione che ha smarrito il contenuto del proprio desiderio

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Last updated on Settembre 7th, 2021 at 10:03 am

È davvero possibile che gli esseri umani, corpi animati in grado di compiere azioni informate di razionalità – come ricorda il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre nel suo Animali razionali dipendenti –, siano capaci di perseguire, contemporaneamente e con convinzione, intenti così contraddittori tra loro che nessun animale non-razionale potrebbe mai, se per assurdo ne avesse le capacità, anche solo lontanamente contemplare?

Eppure accade. Per esempio ci si impegna, che sia per via parlamentare, piuttosto che per via referendaria, nella costruzione di vie sempre più agevoli e gratuite – autostrade senza casello – per procurarsi la cosiddetta «buona morte», che nulla ha a che vedere con la greca kalòs thànatos, l’eroica morte in battaglia. Anzi, di questa l’eutanasia è proprio l’opposto, grazie al ribaltamento semantico per cui il «buono» (in greco εὗ) della «morte» (ϑάνατος) è diventato l’atto di resa di fronte a una vita insostenibile, nell’insindacabilità del giudizio su ciò che potrebbe rendere “insostenibile” la vita per ciascuno. Contemporaneamente, e con spiccato entusiasmo, la “scienza” annuncia: «entro 17 anni avremo l’immortalità». Sottotitolo: «continuano gli studi e gli esperimenti scientifici per farci evitare quello spiacevole inconveniente chiamato morte».

Alchimia e scienza

D’altra parte non è certo Harry Potter il primo ad aver dimostrato un certo interesse per la pietra filosofale, quell’elisir di lunga vita, cura per le malattie e fonte di onniscienza, capace persino di tramutare qualsiasi metallo in oro, così da garantire anche il sostentamento per la durata, infinita, dell’esistenza del fortunato proprietario. La moderna scienza si è sostituita all’antica alchimia, ma il fine dichiarato rimane il medesimo: non per magia, ma tramite l’uso della ragione “scientifica” l’uomo domanda e ricerca il superamento della propria natura determinata. Quello «spiacevole inconveniente chiamato morte», l’ultimo nemico da combattere, sarebbe determinato, secondo gli scienziati moderni, da «interruttori genetici che causano l’invecchiamento», interruttori che potrebbero essere manipolabili – pare che con i vermi funzioni  – al fine di raggiungere, se non proprio l’immortalità, almeno un prolungamento significativo della durata della vita del corpo. Simili ricerche scientifiche, compiendo significativi passi avanti nella conoscenza dei meccanismi biologici, possono rivelarsi estremamente utili per il benessere umano, nella lotta, in primis, contro le malattie degenerative.

Lo stesso Laurent Simons, laureato in Fisica, con lode, all’età di undici anni, ha dichiarato come il suo obiettivo sia l’immortalità: «voglio riuscire a rimpiazzare il più possibile le parti del corpo con delle componenti meccaniche. Ho un percorso da seguire per arrivare lì. La fisica quantistica, lo studio delle particelle più piccole, è il primo pezzo del puzzle»

Pseudoscienza e fantascienza

Non c’è, infatti, solo lo studio dei geni che determinano l’invecchiamento: per ingannare la morte si stanno tentando molteplici vie, come «clonare parti del corpo e sostituirle nel tempo con quelle “vecchie”; fermare il metabolismo con la criogenia e poi riparazioni cellulari attuate con la microrobotica, aggiustando nel dettaglio tutto quello che invecchia e si rovina nel nostro corpo». In particolare il progetto Russia 2045iniziativa del miliardario russo Dmitry Itskov – mira a «creare tecnologie che consentano il trasferimento della personalità di un individuo a un vettore non biologico più avanzato e che estendano la vita, anche fino all’immortalità». In base a diversi step, la comunità scientifica che sta lavorando al progetto prevede di arrivare alla creazione di repliche perfette del corpo fisico dotate di intelligenza artificiale, avatar, entro cui trasferire la personalità di un essere umano. Entro il 2045 si dovrebbe giungere alla possibilità di eliminazione di qualsiasi “supporto fisico”, così che l’individuo potrà sopravvivere solo a livello digitale. Scenario per altro già immaginato, e descritto, nel racconto di fantascienza del 1956 L’ultima domanda dallo scrittore Isaac Asimov (1920-1992).

Who wants to live forever?

È sempre Asimov, nella sua genialità e preveggenza, a svelare l’inganno di qualsiasi sguardo sulla vita, e sulla morte, incapace di riconoscere il valore dell’uomo in quanto tale, prima ancora della qualità della vita vissuta, o della sua durata. In The Bicentennial Man, reso famoso dall’omonimo film, purtroppo decisamente non all’altezza del racconto, il robot positronico Andrew, dotato di sorprendenti capacità artistiche e intellettuali, in una evoluzione lunga appunto due secoli arriva a raggiungere la propria aspirazione massima: il riconoscimento pubblico del proprio status di uomo. «iFamNews» ha raccontato la storia di Andrew, ma ne ricordiamo i tratti salienti, per quei – speriamo pochi – lettori che se la fossero persa: è la condizione di “incorruttibilità” del cervello artificiale a presentare l’ultimo ostacolo per il riconoscimento pubblico dello status di essere umano desiderato dal robot. Per questo Andrew giunge a un ultimo gesto estremo: la trasformazione del proprio cervello, potenzialmente incorruttibile, in un organo la cui durata è determinata da un deperimento irreversibile. Chiudendo gli occhi per l’ultima volta, l’uomo Andrew, fiero per avere raggiunto il compimento della propria aspirazione, ha una fugace visione della Signorina Piccola, figlia minore della famiglia cui il robot aveva prestato i propri servizi nei primi anni di esistenza. Nell’immagine dell’essere umano da sempre amato dal robot, origine stessa di suo desiderio di “farsi” umano, emerge con prepotenza la risposta alla domanda cui Asimov stesso aveva dedicato questo racconto: cosa ha visto Andrew nel genere umano di così affascinante da meritare la morte?

Cosa c’è nell’uomo capace di vincere la morte, non già perché l’inganna, ma perché la supera? Non abbiamo bisogno di tecnologia – utile, per carità, ma mai risolutiva – ma di testimonianze di speranza: c’è qualcosa per cui la vita vale di essere vissuta, spesa e anche di essere data. L’ha capito persino un robot.

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