Se vincesse il referendum sulla droga sarebbe un manicomio

Gli agricoltori spinti dal mero profitto emuleranno i talebani, coltivando, non il basilico, bensì dall’oppio alla coca

Droga

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Una cosa sola è chiara a proposito del referendum sulla droga. Fa male e bisognerà dire NO. Lo abbiamo scritto, lo abbiamo ripetuto, lo ripeteremo e lo ripetiamo qui. Il Centro Studi Rosario Livatino (CSL) ha di recente pubblicato un’analisi acuta e articolata del tema a firma del presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino. Ad Alfredo Mantovano, magistrato, e vicepresidente del CSL, «iFamNews» ha domandato un chiarimento ulteriore della materia. Il magistrato ha accettato di buon grado e quella che segue è la sua spiegazione.
-Marco Respinti

Con la prima parte del quesito referendario, Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope, verrebbe abrogata la punizione della coltivazione di qualsiasi tipo di droga, non soltanto della cannabis e dei suoi derivati – si pensi all’oppio, alla coca o ai funghi allucinogeni, con riferimento alle sanzioni previste dall’art. 73 del Testo unico sugli stupefacenti. Da quando esiste una normativa di prevenzione e di contrasto della droga, infatti, il divieto di coltivazione rappresenta una sorta di “difesa anticipata”.

Ma il risultato sarebbe di grande confusione, perché la proposta referendaria non tocca gli art. 26 e 28 dalle citata legge sulle droghe: il primo vieta la coltivazione delle piante, comprese tanto nella tabella I (coca e papavero da oppio), quanto nella tabella II (cannabis), e il secondo prevede che chi coltivi, senza autorizzazione, le suddette piante incorra nelle stesse «sanzioni penali ed amministrative stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse».

L’eventuale approvazione della proposta referendaria comporterebbe quindi che la coltivazione non autorizzata, tanto della coca e del papavero da oppio quanto della cannabis, continuerebbe comunque a essere penalmente sanzionata, con la differenza, però, che mentre per la coca e per il papavero la sanzione rimarrebbe quella della reclusione unita alla multa, quale prevista dal comma 1 dell’art. 73, per la cannabis, soggetta alle previsioni del comma 4, rimarrebbe invece applicabile la sola multa.

E sempre con la sola multa risulterebbero punibili tutte le altre condotte (produzione, fabbricazione, cessione, vendita, commercio, distribuzione e così via) previste dal comma 1 e richiamate in blocco dal comma 4, quando avessero in oggetto non solo la cannabis e i suoi derivati, di cui alla tabella II, ma anche le altre sostanze stupefacenti, di tipo sintetico, elencate nella tabella IV.

Ora, è difficile pensare che un tale assetto normativo sia conforme alle più elementari esigenze di ragionevolezza e, prima ancora, di semplice buon senso. Somiglierebbe a un manicomio, e aprirebbe a ogni arbitrio interpretativo.

Quel che è certo è che l’approvazione del referendum riguarderebbe qualsiasi attività di coltivazione, non soltanto in forma domestica, poiché l’abrogazione tranchant del «coltiva» prescinde dall’estensione: l’evidente maggiore remuneratività derivante dal dedicare un appezzamento di terreno alle piante di cannabis, invece che al basilico o ai pomodori, trasformerà agricoltori spinti dall’esclusivo intento di profitto in emuli dei talebani, con possibilità di spaziare all’oppio e alla coca.

Né vale il richiamo pietistico ai pazienti che ricaverebbero sollievo da oppiacei o cannabinoidi, e che invece ne sono impediti da divieti sadici: chi, medico o paziente, ha pratica di terapia del dolore riceve o somministra stupefacenti, come per esempio la morfina, ma sotto stretto controllo e per dosi rigorosamente commisurate all’entità della sofferenza. La terapia del dolore non è un irresponsabile fai-da-te: richiamarla in questa prospettiva è dannoso per il malato e sfiduciante verso i medici a ciò abilitati.

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