Il 10 gennaio l’Ufficio centrale per il referendum della Corte Suprema di Cassazione ha disposto che la denominazione del quesito referendario prossimo venturo sulla droga in Italia sia: Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope.
Si sottolinea, qui, il sostantivo coltivazione. In caso di vittoria del referendum, togliendo il verbo «coltiva» dall’art. 73 della legge sulle droghe diverrà del tutto lecita nel nostro Paese la coltivazione di qualsiasi tipo di vegetali dagli effetti “stupefacenti”, anche altamente pericolosi per la salute fisica e psichica di tutti, dalla marijuana ai funghetti allucinogeni.
Certo, c’era già tutto nella lettera della proposta referendaria, ma la novità, clamorosa, è che ora il punto è stato esplicitato. La Cassazione, correggendo la denominazione, ha fatto un gran servizio alla chiarezza e a tutti noi, ma occorrerà davvero porre la massima attenzione a quel passaggio non certo di poco conto e certamente bypassato dai più.
Non è vero, infatti, che il referendum chiederà “soltanto” di legalizzare il farsi canne: chiederà espressamente che sia possibile coltivare, alias (si consentirà la semplificazione giornalistica sì, ma efficace) produrre droga. Dove? Di certo, estensivamente da parte di aziende in affari con le mafie ma, perché no, anche a casa propria, sul balcone, in terrazzo, in cucina, magari pure in soggiorno, come uno sballo, cosa perfettamente normale, un’alienazione quotidiana, fra bimbi che giocano, tate, televisione o musica a palla e cotillon. E attenzione anche al fumo passivo.
Il messaggio ora è cioè più chiaro: se i promotori del referendum vogliono liberalizzare la coltivazione di ogni tipo di pianta “da droga” è perché sia poi consentito, dopo averla prodotta, farne uso.
È gravissimo e pochi se ne stanno accorgendo. Per questo motivo, una volta in più e con più forza, occorre votare NO, bocciando il quesito referendario che, come fumo negli occhi (e come sta scritto sugli scatoloni depositati dai promotori in Cassazione), i promotori volevano far credere a tutti trattasse solo le solite “canne”. È il fai-da-te dell’autodistruzione.
E non basta. Con la seconda parte del quesito si mira infatti ad abrogare la reclusione da 2 a 6 anni per il traffico illecito di droga. Resterebbe insomma soltanto una (blanda) sanzione pecuniaria, che certamente non rappresenta un freno al traffico di morte: di fronte a quello che può fruttare la commercializzazione della droga, infatti, il rischio di una mera multa verrebbe, cioè, messo in conto come “costo sostenibile”. Ora, se questo è vero, com’è vero, non si può tacere la subdola e perversa logica dei promotori del referendum: essi, pur riconoscendo l’illiceità del traffico di droga, di fatto, mirano a depenalizzarlo. Non a renderlo lecito, bensì a svuotarne la sanzione.
Mirano, insomma, a normalizzare il male in quanto male. E questo può essere ancora peggio che cercare artatamente di trasformare il male in bene.
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