I cosiddetti «referendum sulla giustizia» sono stati un fiasco pazzesco. Scrivo «cosiddetti» perché chiamare «referendum sulla giustizia» cinque quesiti su argomenti aventi a che fare con il tema della giustizia è scambiare la bottiglia con il vino che contiene. Si trattasse di retorica, parleremmo di metonimia. Perché non è detto che un vino sia sgradevole se lo è il suo… fiasco.
Il punto sta qui. Nei giorni precedenti la consultazione di domenica 12 giugno si è assistito a una impennatina di passione da parte dello sparuto gruppo di votanti-a-tutti-i-costi. Un piccolo gregge granitico nell’appellarsi al Tricolore. Il gregge marciava del resto sparso: chi votava tre «sì» e due «no», chi l’inverso, chi invece approvava qui e si asteneva là, ma tutti uniti nell’intendere l’andata alle urne come la linea del Piave, forse la Marcia su Roma. Pareva si giocassero i destini ultimi dello Stivale come alla finale della Coppa Rimet, giacché, ovvio, di giustizia si parlava, e dunque è parso di comprendere che chi alle urne fosse andato è un patriota integrale e un democratico convinto mentre gli altri sono canaglia colpevole di intelligenza con il nemico. Nemico che il comparire sempre più frequente di parole grosse e di riferimenti a noti magistrati antimafia falcidiati ha fatto un po’ antipaticamente percepire che a qualcuno sia forse balenata l’idea di sussurrare che se uno non fosse andato a votare sarebbe stato perché ha da nascondere cose alla giustizia.
Manzonismi mal riposti
Nel lavacro rigeneratore delle urne di cartone tenute assieme con lo scotch si è infatti celebrato il rito democratico supremo. Pagare le tasse e illudersi di una volontà di potenza inesistente espressa dallo strumento voto-sulla-schedina è il tratto moderno del citoyen compiuto che si crede libero perché i fili del burattinaio Leviatano gli permettono oscillazioni funzionali al non spezzarsi troppo rapido delle funi di costrizione. Lo diceva bene la grande specialista del Medioevo Régine Pernoud (1909-1998) in una intervista rilasciata al sottoscritto nel 1994, stigmatizzando la differenza fra la speciosa libertà moderna e la libertà luminosa dell’epoca “buia”.
In questo si distinguono specificamente una parte dei cattolici, alcuni persino altolocati, malati cronici di un morbo freudiano: il complesso di inferiorità. Il sentirsi cioè cittadini di serie B, con frequente ricaduta di autolesionismo da castrazione o automatica induzione all’impotenza. Non, cioè, l’accusa che gli avversari fanno da sempre ai cattolici di non essere sinceramente democratici e convintamente patriottici, ché quello è un falso classico, bensì il convincimento di esserlo davvero, da cui scatta la voglia pavloviana smodata di figurare alla balconata di quelli con l’abito meglio stirato.
La paura, insomma, di apparire meno degli altri, da cui la foga a fare di più, ovvero a strafare. Lo chiamo “manzonismo di sinistra” e lo intendo come la deviazione dallo spirito narrativo del grande cattolico Alessandro Manzoni (1785-1873) per uno scranno nel Senato dell’Italia risorgimentale anticattolica.
Lectio brevis
Torno al referendum. La democrazia non è un regime, ma la partecipazione alla vita politica. Quindi è possibile con regimi istituzionali diversi, governino uno, pochi o molti, così com’è ostacolata da altri regimi speculari, governino uno, pochi o molti. Monarchia, aristocrazia e repubblica contro tirannia, oligarchia e demagogia. Il condimento è il populismo, secondo l’idea di illudere il popolo di contare contandolo. Come diceva Indro Montanelli (1909-2011) per il fascismo (esistono due fascismi: il fascismo e l’antifascismo), esistono due tipi di populisti: i populisti e quelli che esecrano il populismo.
Non è cioè il referendum lo strumento privilegiato e principe della politica. In un ordinamento repubblicano è il parlamento a fare le leggi. Anche a essere lento, pure a marcare visita. Ma se un alunno fa il discolo a scuola, il maestro prende provvedimenti su di lui o chiede al preside di chiudere la scuola?
L’idea che il referendum sia lo strumento giusto a prescindere per pressare il parlamento puzza di giacobinismo. I tumulti del pane per snidare i “parrucconi”. Questo luogo comune, come tutti i luoghi comuni, affonda nella verità, ma anche la verità più pura scambia la parte per il tutto se si sclerotizza e invece di una figura retorica produce solo danni. Questi danni si chiamano rivoluzione, e non una rivoluzione sola nella storia ha operato per il bene comune.
Il male comune delle rivoluzioni può essere la piazzata violenta o la coartazione soft, ma il risultato non cambia: la corretta dinamica della politica si allontana sempre più.
Gemelli e gemellaggi
I cosiddetti «referendum sulla giustizia» di domenica 12 giugno hanno fatto credere agli italiani che i problemi gravi della giustizia italiana li possano risolvere la casalinga di Voghera e madama la marchesa apponendo cinque crocette su cinque fra i tanti nodi del tema. Ovvero che la giustizia coincida con quei quesiti. Che la giustizia trionfi con la vittoria di quei cinque referendum. Che la giustizia sia un pallottoliere per sfidarsi ai punti fra partiti.
Fortunatamente gli italiani hanno pensato altrimenti. Non avendo capito i referendum, la casalinga e la madama sono andate al mare. Giustissimo. Non spetta loro occuparsi di questioni spesso così tecniche da trovare lecitamente divisi anche gli addetti ai lavori.
Il referendum, che mette orizzontalmente sullo stesso piano l’omicidio di due gemelli o il gemellaggio fra Brescello e Brezwyscewsk, non è lo strumento ordinario della politica perché porta la politica all’estinzione.
Il Centro Studi Rosario Livatino (CSL), sempre attento e accorto sui temi della giustizia, ma soprattutto sempre lucido nell’articolare correttamente il rapporto fra princìpi non-negoziabili e dossier opinabili, scrive: «Il mancato raggiungimento del quorum costituisce non soltanto il naufragio dell’iniziativa referendaria – dagli obiettivi condivisibili, ma operata coi mezzi più confusi e contraddittori ‒, bensì pure il fallimento sui temi della giustizia di una intera legislatura: partita dalla manipolazione della prescrizione, proseguita con l’introduzione di istituti dagli effetti devastanti, quale l’improcedibilità in appello e in cassazione, e con destinazioni dei fondi Pnrr provvisorie e inutili, come l’ufficio per il processo, senza affrontare direttamente uno solo dei problemi emersi dal c.d. ‘caso Palamara’».
Faccio mia ogni singola parola e concordo con il CSL nel dire: «Se il bilancio è di cinque anni perduti, unitamente a risorse e a occasioni di riforme, il senso di responsabilità impone alle forze politiche, all’indomani di questa manifestazione di sfiducia dell’elettorato, di individuare i veri nodi della questione giustizia in Italia e, al di là delle divisioni, di assumere l’impegno perché la prossima legislatura sia dedicata ad affrontarli e a risolverli».
Princìpi non referendabili
Ciò vuol dire, spiega il CSL, che continuo a seguire, «per restare allo stretto ambito della magistratura, puntare, oltre che a una vera e formale separazione delle carriere, che comunque ha bisogno di una modifica costituzionale, a estrapolare il giudizio disciplinare dal CSM, per affidarlo a un giudice non elettivo, ad adeguare gli organici di magistrati e personale di cancelleria, elevando l’attuale media della metà rispetto agli organici degli altri Paesi UE, a rivedere i meccanismi di ingresso nella funzione e di progressione in carriera, e quindi a cambiare le modalità del concorso e della nomina dei capi degli uffici».
Perché il punto centrale è questo: «Chi ha ricevuto un mandato dagli elettori, e siede in Parlamento e nel Governo, vari queste indilazionabili riforme, senza aggiramenti per via referendaria: che fanno tornare al punto di partenza, avendo nel frattempo bruciato tempo e denaro».
Sulla nota finale «denaro» torno al «Via» senza ritirare la prebenda, come in un famoso gioco di società, ovvero all’incipit «il mancato raggiungimento del quorum costituisce […] il fallimento […] di una intera legislatura».
«iFamNews» lo ha scritto sin dall’inizio, occupandosi delle tematiche che sono sue. Il governo “nuovo” di Mario Draghi che conferma in ministeri chiave personaggi “vecchi” come Roberto Speranza, Luciana Lamorgese ed Elena Bonetti, i quali, sui princìpi non negoziabili, cioè su ciò di cui si occupa «iFamNews», hanno dato prova pessima di sé, non meritava e non merita la fiducia della casalinga e della madama che hanno a cuore il diritto alla vita, la difesa della famiglia naturale, la libertà religiosa, la libertà di educazione e la libertà di espressione, tutte questioni fondamentali di giustizia non referendabili.
Propongo qui un cambio di espressione: da princìpi non negoziabili a princìpi non referendabili. La cosa che lascia più basiti di tutte è sempre il posticino sulla balconata di quelli con l’abito meglio stirato che troppi si sono ritagliati nel coabitare normalizzato e seriale con detti soggetti politici mentre il parlamento viene progressivamente esautorato.
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