Partiamo dall’etimologia, cioè dal significato della parola. «Referendum»rimanda a qualcosa che si ha da riferire. Il protagonista non è tanto chi convoca, quanto piuttosto chi viene chiamato a pronunciarsi, il quale ben potrebbe non avere nulla da riferire, non ritenendo la questione meritevole di attenzione o risolvibile con un «sì» o con un «no».
È vero che la Costituzione, all’art. 48, qualifica l’esercizio del diritto di voto come «dovere civico». Ma è anche vero che la stessa Corte costituzionale, già nel 2005, ha chiarito che altro è la mancata partecipazione al voto, comunque pregna di un significato socio-politico, altro è l’astensione nel voto. E se astenersi nelle elezioni politiche e amministrative significa riporre nell’urna la scheda bianca, nel referendum, dove questa opportunità non è contemplata, l’astensione non può che essere realizzata non rispondendo ad una chiamata, peraltro proveniente da una parte minoritaria del corpo sociale.
Sicché ben può darsi il caso che, talora, sia proprio l’astensione a connotarsi come dovere civico e morale, tutte le volte in cui, presentandosi al voto, si contribuisca al raggiungimento di quel quorum ‒ al quale, non a caso, la Costituzione ha condizionato la validità della consultazione ‒, così consentendo che un’opinione, di pochi, possa, alla fine, condizionare, e spesso assai negativamente, la vita di molti.
Dunque, il per cosa si è chiamati a votare ha la sua importanza.
Ma perché il referendum è divenuto una costante della nostra vita politica?
Essenzialmente per la incapacità dei politici di dare risposte.
Intendiamoci: non si vuole qui tessere le lodi di coloro che sempre più assomigliano a quella clase discutidora che il filosofo spagnolo Juan Donoso Cortés (1809-1853) individuava in una borghesia avulsa dal reale e avviluppatasi in parole vuote.
Si tratta, tuttavia, di prendere atto, sempre in nome di un sano realismo, che, in assenza oramai di altri corpi intermedi, coloro che siedono nelle assemblee elettive sono quel che resta della necessaria interlocuzione che deve esserci fra società e Stato.
Il ricorso frequente al referendum, su questioni che meriterebbero un esame ragionato e una risposta articolata, rappresenta la disintermediazione portata in campo politico, la certificazione dell’inutilità degli eletti.
E quel che è più grave è che l’uso sistematico del referendum viene supportato dagli stessi politici che così celebrano pubblicamente il proprio suicidio.
Infine, per chi.
Occorre, infatti, chiedersi quali siano gli effetti di tali consultazioni, fondate più sull’emotività che sul ragionamento, sugli slogan più che sull’analisi: la versione politica dei like dei social media.
Non vi è dubbio che essi finiscono per alimentare l’illusione di una partecipazione popolare alla vita politica, solleticando pulsioni demolitive e creando vuoti normativi che altri saranno chiamati a riempire, vestendo i panni rassicuranti dei tecnici e dei comitati di esperti. Ed è altrettanto certo che essi soffiano sul fuoco di un individualismo dilagante, conflittuale e rancoroso, proprio di chi, partecipando all’opera di demolizione di quel che rimane di istituzioni e principi, oggi corrotti ma un tempo fondanti, sembra rassegnarsi a una condizione da picconatore. Laddove urge por mano alla ricostruzione, con pazienza e sacrificio.
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