C’è voluto del tempo, qualche scambio di e-mail e un po’ di pazienza, ma infine tutto si è risolto e Chiara Valcepina, Fratelli d’Italia, consigliere nel Comune di Milano, ha ottenuto la targhetta giusta sulla porta del proprio ufficio. La vicenda, naturalmente, non configura chissà quale contrasto o disagio, ma una questione formale che diviene, però, sostanziale.
Una volta eletta, quest’autunno, come da prassi l’avvocato Valcepina ha avuto a disposizione un ufficio nel palazzo del Comune. La targhetta accanto alla porta riportava le generalità del collega che l’aveva preceduta e vi è stato aggiunto un semplice post-it, con il suo cognome. Consigliere Valcepina, insomma. Una volta sostituita la targhetta provvisoria, però, a sorpresa il consigliere Valcepina si è ritrovata “consigliera”, in base alla delibera della Giunta comunale n. 1312 del 02/08/2019, Linee guida per l’adozione della parità di genere nei testi amministrativi e nella comunicazione istituzionale del Comune di Milano.
«Non mi piace la qualifica di consigliera, preferisco consigliere. Non mi piace sia perché trovo che certi termini che stridono con l’abitudine linguistica non siano piacevoli, sia per principio», afferma Chiara Valcepina. Dopo la richiesta formale di ripristinare la targhetta con la dicitura precedente e dopo qualche e-mail scambiata con il funzionario per i servizi amministrativi, nelle quali il consigliere Valcepina ha proposto anche di far modificare la targa a proprie spese, facendola realizzare identica alle altre per uniformità e decoro, finalmente è arrivata l’autorizzazione del presidente del Consiglio comunale, Elena Buscemi, e la targhetta giusta è stata fissata al muro.
La delibera 1312 non è vincolante e obbligatoria, semplicemente sottolinea la volontà del Comune meneghino di promuovere il cosiddetto «linguaggio di genere» per sostenere la parità fra i sessi. «Sono più che d’accordo con la parità fra i sessi», continua Chiara Valcepina, «sono una donna, lavoro e ho sempre lavorato e sono fiera di essere un avvocato. Sono i piccoli “contentini” che mi infastidiscono, come se una targhetta con il titolo che termina con la lettera “a” dovesse bastare. È vero che in taluni casi spingere un poco sull’acceleratore, penso per esempio alle quote rosa, si rivela utile per mettere le carte in tavola. In generale, però, bado più alla sostanza. Vorrei politiche concrete a favore delle donne, che siedano in Consiglio comunale oppure no». E la sostanza, evidentemente, prevede aiuti e azioni concrete per la parità di genere, non la declinazione di termini o titoli. «Queste azioni, però, hanno un costo. Mancano per sostenerle le risorse sia economiche sia sociali, per cui bisogna accontentarsi di battaglie formali che non portano a nulla. Anzi, che limitano la mia libertà di scelta, per accondiscendere a diktat ideologici», aggiunge la Valcepina.
La questione della neo-lingua inclusiva di tutti, che finisce per non essere inclusiva di nessuno, è alla ribalta da tempo. Che si tratti di parità fra i sessi o di rivendicazioni gender fluid che pretendono il riconoscimento linguistico di pretese poco realistiche, le voci che si levano a favore di un linguaggio politically correct sono sempre più sonore e arroganti, avversate da pochi. Ma, conclude il consigliere Valcepina, «si tratta di pura ipocrisia linguistica».
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