Last updated on Novembre 28th, 2021 at 11:35 am
Il cortocircuito consumatosi nelle settimane scorse alla Commissione per le pari opportunità del Comune di Bologna è soltanto l’ultimo di una lunga serie di “pasticciacci brutti” di un’Emilia-Romagna dove il rosso tradizionale si è accomodato in un più ampio arcobaleno. Il 4 ottobre il consigliere Egisto Marcasciano è stato eletto nelle file di Coalizione Civica Coraggiosa, in abbinata a una candidata donna, come è ormai prassi in tutti i Comuni italiani. Marcasciano, del quale a tutti è evidente e chiarissimo il sesso, al di fuori delle competizioni elettorali si fa chiamare «Porpora» e si veste da drag queen.
Ora, la sua elezione a presidente alle Pari opportunità ha fatto gridare alla truffa i consiglieri dell’opposizione, che quindi non hanno votato. Eletto al Consiglio come uomo, Marcasciano ha infatti assunto il nuovo ruolo come donna, in forza della gender identity, che in Italia non è legale, ma che al Comune di Bologna vige evidentemente de facto.
La sua vicenda ricorda molto quelle delle tante atlete che, negli Stati Uniti d’America ma non solo, sono state penalizzate nelle competizioni sportive per la compresenza in gara di uomini che si autopercepiscono come donne e che però viziano ovviamente i risultati. L’esito è del resto sempre lo stesso: per non passare per omofobo, si diventa giocoforza maschilista.
Quasi in contemporanea al caso Marcasciano, pochi chilometri più a est andava in scena un’altra querelle simile. La linea di trasporti Start Romagna, in collaborazione con l’associazione «Affetti di ogni genere», ha inaugurato una nuova tipologia di abbonamenti con alias: chi all’anagrafe fa per esempio «Francesco», potrà così avere una bella tessera con scritto per esempio «Giovanna». Superfluo notare le complicazioni amministrative in caso di contravvenzioni o di altri illeciti, caso specifico della confusione pericolosa che questa ideologia porta nei documenti di identità.
Che l’Emilia-Romagna – e in particolare il suo capoluogo – abbia sempre rappresentato la punta di diamante dei diritti LGBT+ in Italia, non è un mistero. Nel 1995 Bologna è stato il primo Comune a eleggere un consigliere transessuale, Marcello Di Folco (1943-2010), divenuto «Marcella di Folco» dopo l’operazione di riassegnazione del sesso, attore in film di Federico Fellini, Roberto Rossellini, Dini Risi e Alberto Sordi, quindi presidente del Movimento Identità Transessuale (MIT) e nel 1997 vicepresidente dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere. Il capoluogo emiliano è anche sede, dal 1982, del Movimento Identità Transessuale, sebbene il più noto think tank arcobaleno rimanga il Cassero LGBTI Center. Nel 2017 il Comune di Bologna ha peraltro sottoscritto un Patto di collaborazione con quattordici associazioni per la tutela delle persone e della comunità LGBT+ della città. Ne è scaturita una quantità innumerevole di seminari formativi dai contenuti sempre molto dettagliati e dalle finalità evidentemente indottrinanti.
Non è da meno il Comune di Reggio Emilia, che, nel 2019, ha firmato un protocollo per il contrasto all’«omo/transfobia» e all’«omo/transnegatività» e per l’inclusione delle persone LGBT+. Tra le disposizioni più rilevanti: i sevizi igienici gender neutral e la formalizzazione di un terzo genere sui documenti d’identità con l’aggiunta della dicitura «altro» al maschile e al femminile. All’iniziativa hanno aderito anche università, asili nido e AUSL.
Veniamo ora al vero fulcro della rivoluzione arcobaleno che si sta consumando tra il Po e l’Appennino. Una rivoluzione istituzionale, permanente e silenziosa che ha messo a segno il colpo più grande con la legge regionale n°15/2019 «contro le discriminazioni e le violenze dettate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere». Essendo vigente unicamente sul territorio emiliano-romagnolo, la normativa non prevede sanzioni penali, come invece prevedeva il «Ddl Zan» respinto dal Senato il 27 ottobre. L’intero impianto della legge emiliano-romagnola contro l’«omo/transfobia» è quindi di carattere pedagogico e propagandistico. In primo luogo «la Regione riconosce il diritto all’autodeterminazione di ogni persona in ordine al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere, secondo quanto disciplinato dalla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), anche mediante misure di sostegno» (art. 1). Con questa legge la Regione Emilia-Romagna e «gli enti locali» si impegnano ad adottare interventi a sostegno delle «vittime di discriminazioni nell’ambito delle politiche attive del lavoro, di formazione e riqualificazione professionale nonché per l’inserimento lavorativo» (art. 2, c.1).
L’impostazione ideologica della legge emiliano-romagnola si riscontra in particolare nella previsione di «codici di comportamento» e di «attività di formazione e aggiornamento del personale», finalizzati a contrastare gli «stereotipi discriminatori» e un «linguaggio offensivo o di dileggio» (art. 2, c.1). La prevenzione del «bullismo e cyberbullismo» a sfondo omofobico è calibrata in modo particolare sui settori educativo e sportivo (art. 3), nella promozione di eventi culturali (art. 4) e in materia socio-assistenziale e socio-sanitaria (art. 5). I due veri cavalli di battaglia della legge n°15/2019 sono però l’istituzione dell’osservatorio regionale sulle discriminazioni (art. 7) e il Comitato Regionale per le Comunicazioni (art.8). Entrambi gli organi sono strutturati come dei veri e propri Minculpop. L’osservatorio, entrato in funzione nel luglio 2021, è finalizzato alla «raccolta dei dati», al «monitoraggio dei fenomeni legati alla discriminazione e violenza dipendente dall’orientamento sessuale e dall’’identità di genere in Emilia-Romagna» e alla «raccolta ed elaborazione delle buone prassi adottate nell’ambito di azioni e progettualità a sostegno delle finalità della presente legge». Il Comitato Regionale per le Comunicazioni (CORECOM) è invece incaricato di monitorare i «contenuti della programmazione televisiva e radiofonica regionale e locale, nonché dei messaggi commerciali e pubblicitari, eventualmente discriminatori rispetto alla pari dignità riconosciuta ai diversi orientamenti sessuali o all’identità di genere della persona».
Fin qui gli intenti propagandistici. Dove la Regione Emilia-Romagna va a incidere concretamente e fisicamente nella vita delle persone LGBT+ è con il conferimento della gratuità delle terapie ormonali per chi soffra di disforia di genere. In attuazione della già citata legge regionale n°15/2019, a partire dal settembre 2020 il Servizio Sanitario Regionale sostiene e promuove «iniziative di informazione, consulenza e sostegno sulle tematiche specifiche che coinvolgono le persone gay e lesbiche, transessuali, transgender e intersex» e le loro famiglie. La Regione Emilia-Romagna garantisce inoltre ai residenti la possibilità di ricevere i farmaci sotto lo stretto controllo del Servizio Sanitario Regionale, secondo le indicazioni di appropriatezza prescrittiva stabilite dalla Commissione regionale del Farmaco. Le terapie ormonali possono essere erogate «sia durante il periodo di transizione, in cui la persona inizia ad assumere le caratteristiche fenotipiche del sesso opposto, sia, successivamente, per coloro che decidono di non ricorrere all’intervento chirurgico definitivo, ma realizzino unicamente il cambio anagrafico del sesso», si legge sul sito istituzionale della Regione. Anche in questo campo, l’Emilia-Romagna si pone all’“avanguardia” rispetto al resto d’Italia.
Non certo, però, rispetto ad altri paesi europei, peraltro più secolarizzati, a partire dal Regno Unito o la Svezia, dove, alla luce di una serie di eventi anche giudiziari, sulla transizione di genere è iniziata una seria riflessione e il dibattito non è più un tabù.
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