Last updated on aprile 28th, 2021 at 02:30 am
C’è del buono a questo mondo. Talvolta anche a sinistra. La cancel culture si sta diffondendo a macchia d’olio, eppure difenderla apertamente e in modo credibile è arduo. Più facile è tacere per quieto vivere, e forse quelli che lo fanno sono la maggioranza.
Tra chi ha lanciato l’allarme c’è Massimo Gramellini. A onor del vero, la notizia che l’insegnamento di Wolfgang Amadeus Mozart fosse stato depennato dai programmi dell’Università di Oxford era stata sbugiardata dall’Associated Press. Rimane il fatto che, il 1° aprile, il vicedirettore del Corriere della Sera era entrato a gamba tesa nella polemica. «Mozart era bianco dalla cipria alla parrucca», aveva scritto Gramellini «e probabilmente mangiava dolci senza chiedersi se lo zucchero fosse stato raccolto dagli schiavi delle Antille. Però era in contatto con l’energia divina del genio. Quella che certi saputelli ipnotizzati da ideologie autolesioniste non incroceranno mai nemmeno per sbaglio».
Sulla stessa lunghezza d’onda un altro giornalista torinese, Gianluca Nicoletti. Già in luglio, quando Oltreoceano il fenomeno di Black Lives Matter era all’apice, in un videocommento aveva abbondantemente frenato gli entusiasmi. La cancel culture, disse, «ha poco a che fare con la civilizzazione»: piuttosto avrebbe, come «scopo recondito», la «riesumazione di un pensiero arcaico». Piuttosto che «favorire una società migliore», gesti come l’abbattimento di monumenti di Cristoforo Colombo o Winston Churchill sembrano «voler stimolare l’imbarbarimento».
Gramellini e Nicoletti non sono però un’eccezione italiana. Sempre nel pieno delle scorribande estive degli Antifa, un folto gruppo fra intellettuali e personaggi dello spettacolo, tutti, chi più chi meno, di orientamento liberal, aveva sottoscritto una lettera di protesta pubblicata su Harper’s Magazine. Tra i firmatari più illustri figurano accademici come Ian Buruma e Noam Chomsky, scrittori come Margaret Atwood, Salman Rushdie e J.K. Rowling, musicisti come Wynton Marsalis. Tutti concordi nel prendere le distanze da «una nuova serie di atteggiamenti morali e impegni politici che tendono ad indebolire le nostre norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico». I sottoscrittori del manifesto denunciavano il «clima d’intolleranza» instauratosi «da ambo le parti». Sul fronte liberal registravano un’attitudine allo «svergognamento pubblico», all’«ostracismo» e una «tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in una sicumera morale accecante». Per non parlare del clima di caccia alle streghe, con tanto di roghi mediatici e minacce di licenziamento, contro i dissidenti e persino i “tiepidi”.
Un altro che non sposa la narrazione dominante è il cantautore australiano Nick Cave. Rispondendo, su The Spectator, alla domanda di un lettore sull’essenza della cancel culture, Cave l’ha definita «l’antitesi della misericordia», mentre il politicamente corretto, per lui, è diventato «la religione più infelice del mondo». Evitare di impegnarsi a difendere «idee scomode» ha un «effetto asfissiante sull’anima creativa di una società». È probabile, che si stia andando verso una «società più egualitaria», tuttavia, si domanda l’artista, «quali valori essenziali rischiamo di perdere nel processo?».
Persino MicroMega, “bibbia” della Sinistra radicale italiana, ha dato voce a una malpancista. Sandra Kostner, direttrice del Master in Interculturalità e integrazione nell’Istituto superiore di studi pedagogici di Schwäbisch Gmünd, in Germania, si è soffermata su un risvolto ancor più assurdo del politicamente corretto: le «minacce alla libertà di ricerca scientifica». Inevitabile allora che, in questo ambito, la cancel culture vada a braccetto con l’ideologia gender. La distinzione biologica tra i generi «XX e XY» è un principio che «non si adatta alla visione di chi sostiene che il genere sia un costrutto puramente sociale e che ognuno debba poter arbitrariamente scegliere a quale appartenere». Per costoro «la biologia è un affronto pesante», osserva la Kostner.
E così si arriva allo spettacolo grottesco degli attivisti arcobaleno che «gettano discredito sui biologi, accusandoli di sessismo, di essere di destra, di essere razzisti». In alcune facoltà universitarie tedesche studenti e ricercatori hanno persino «paura di parlare liberamente, perché pensano che possa essere rischioso per la carriera».
Ma la nuova barbarie non accenna a chetarsi.