Last updated on Settembre 9th, 2021 at 06:36 am
In un momento storico in cui il “bene comune” impone, senza però imporne l’obbligo (e la ripetizione è assolutamente voluta), trattamenti sanitari estesi alla totalità della popolazione al di sopra dei 12 anni – per ora –, resi indispensabili per compiere le azioni più comuni della vita, nello stesso identico periodo, sempre per un presunto “interesse maggiore” della popolazione, l’Italia si appresta alla battaglia per l’eutanasia.
Pillola per la morte: nel caso le soddisfazioni della vita fossero sufficienti
Ora, chi non vorrebbe trovare il modo per evitare una sofferenza terribile e insostenibile a un altro essere umano? Il ragionamento parrebbe filare. Eppure, per chi si peritasse di provare a scalfire la questione un poco oltre la superficie, andando al significato vero delle parole utilizzate e, di conseguenza, ai mutamenti culturali che non solo precedono, ma pure conseguono alle modifiche legislative, c’è ancora spazio per qualche riflessione.
È pure un fatto che nei Paesi dove l’eutanasia è già praticata liberamente, il numero delle “buone morti” aumenti esponenzialmente, fino ad arrivare alle proposte di vere e proprie pillole per la morte destinate non a malati terminali o sofferenti per le peggiori condizioni di malattia, ma semplicemente agli over 70 «che vogliono morire perché “stanchi di vivere” o “soddisfatti della vita”». No, non è un refuso: non perché insoddisfatti (che già sarebbe un abominio), ma per il motivo opposto, perché han vissuto abbastanza: largo ai giovani. È pure gratis, visto che le pillole le offre il sistema sanitario nazionale.
Non liberi di morire, ma lasciati soli a soffrire
Ma torniamo all’Italia: è necessario chiarire che “l’esercito della vita” non è formato da bigotti incapaci di riconoscere la realtà del dolore, convinti che sia giusto che i malati soffrano fino all’ultimo istante dell’esistenza. La battaglia contro l’eutanasia, in realtà, altro non è che una battaglia a sostegno della vita, di una vita che ha il diritto di essere vissuta con dignità fino in fondo.
Quando si parla di dignità della vita, però, pare quasi di scivolare nel terreno di gioco del nemico: non sono forse i fautori dell’eutanasia a parlare di diritto di morire con dignità? Son proprio loro che si ergono a paladini della libertà del singolo, del suo diritto di autodeterminazione, contro quei crudeli figuri che parrebbero imporre ad altri una vita in sé insostenibile.
Eppure, esiste una terza via, tra l’imposizione di sofferenze indicibili fino all’ultimo respiro e l’abbandono del malato alla morte come unica ipotesi liberatoria: si chiama cure palliative. Ne ha parlato recentemente, a un convegno svoltosi durante l’edizione 2021 del Meeting di Rimini, il professor Patrick Vinay, docente emerito di Medicina nell’Università di Montréal, in Canada. Preside della facoltà di Medicina, alla fine del proprio mandato si è iscritto a un corso di medicina palliativa, tornando studente, per poi dedicare la propria esistenza ai malati terminali. Oltre ad avere vinto numerosi premi e riconoscimenti, Vinay si è specializzato nello studio delle linee guida per l’uso appropriato della sedazione palliativa e l’uso del metadone come agente analgesico, e ha pubblicato due testi sulla realtà della malattia terminale: Ombres et lumières sur la fin de la vie nel 2010 («Ombre e luci sul fine vita») e Conversations à marée basse: écouter les personnes en soins palliatifs, in uscita nel 2022 («Conversazioni a bassa marea»).
Il suo giudizio è chiarissimo: «C’è un legame stretto tra le nostre emozioni, la nostra realtà interiore e la nostra realtà biologica. È qualcosa di unico: se qualcosa va bene tutto va meglio, se qualcosa va male, tutto va male. E stare chiusi in una stanza da soli significa perdere il significato della vita». Se il malato viene lasciato solo, in balia di una sofferenza senza senso, allora «arriva la depressione, e questo significa livelli di endorfine basse, problemi di immunodepressione, che avvicinano sempre di più al momento del fine vita». Di conseguenza «le persone malate, le persone anziane, hanno bisogno di contatti umani di qualità, diretti, pieni di significato e questo è l’unico modo per queste persone di continuare ad avere una vita significativa, un presente che valga la pena di essere vissuto» Insomma, «una risposta meramente tecnica non consente di portare avanti da sola la vita, se non per un breve momento».
Tutto ciò è negato all’origine dai fautori dell’eutanasia: il malato viene guardato solo per la sofferenza che prova, senza alcun interesse per la sua esistenza, la sua ricerca di significato, il suo valore. Sta qui il grande inganno: avere deciso in anticipo, d’ufficio, che esistano condizioni di vita indegna e insostenibile, un giudizio che toglie speranza e che contribuisce a dimenticare che il vero bisogno del malato è aumentare – come anche la legge prevede – i fondi e gli investimenti per quelle cure palliative e quella terapia del dolore, in tesi il primo sacrosanto impegno di giustizia per i più fragili tra i fragili. Malati e familiari, abbandonati a se stessi, non riescono a immaginare una via di uscita differente al farla finita: non è forse allora compito anche della comunità, e in particolare di quello Stato che sta estraendo un decreto sanitario via l’altro, tenere in considerazione massima la salute corporale dei propri cittadini e dunque mettere in campo tutte le energie e le risorse possibili affinché il desiderio di morte nemmeno nasca, dunque la sofferenza sia il più possibile alleviata e accompagnata? Ci sono almeno 750mila persone in Italia che hanno bisogno di sapere che esiste una via certo più faticosa e meno rapida di una pillola, o di una iniezione, ma decisamente più umana. Troveranno qualcuno disposto a mostrarglielo?
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