Last updated on Febbraio 14th, 2022 at 10:16 am
«TERF» è l’acronimo usato per indicare le cosiddette «femministe radicali trans-esclusive», ossia l’insulto riservato alle donne che difendono la femminilità propria e altrui, che ne sono fiere, che considerano il linguaggio neutro dei vari asterischi e «schwa» una pessima idea, tanto quanto l’inserimento dei pronomi neutri nei dizionari di Francia e Norvegia, e che si vedono sottrarre sempre più spazi e ruoli dall’ortodossia LGBT+ dell’ideologia gender.
È l’insulto che è stato rivolto per esempio a J.K. Rowling, autrice celeberrima della serie di Harry Potter, vittima di stalking impunito perché rifiuta di piegarsi alla bugia che il sesso biologico non esista, ed esista invece solo la percezione della propria identità sessuale, a prescindere dalla realtà del corpo. Ne è stata vittima anche la cantante superstar Adele, poiché alla cerimonia di premiazione dei Brit Awards, i premi musicali che la British Phonographic Industry conferisce annualmente agli artisti pop del Regno Unito, ha affermato di essere orgogliosa di essere una donna.
Che cosa accade, però, quando si scende dal palco della celebrità e si vive nella quotidianità della vita della gente comune, per esempio in una stanza d’ospedale o in una sala parto? La situazione è ancora peggiore. È quanto emerge in un articolo intitolato Effective communication about pregnancy, birth, lactation, breastfeeding and newborn care: the importance of sexed language, pubblicato pochi giorni fa sul periodico dedicato alla salute femminile Frontiers in Global Women’s Health e anticipato il mese scorso dal quotidiano australiano The Sidney Morning Herald.
L’importanza del linguaggio per le donne incinte, le madri e i neonati
Si tratta di uno studio firmato da un pool internazionale di accademici, che definisce l’importanza di un linguaggio che mantenga la distinzione fra i sessi, il «sexed language», quando si parli di gravidanza, parto, allattamento e cura del neonato.
«Il 24 settembre 2021», si legge nell’introduzione, «la rivista medica The Lancet ha ripreso un articolo in copertina con una sola frase a caratteri cubitali: “Storicamente, l’anatomia e la fisiologia dei corpi con vagine sono state trascurate”.Questa affermazione, in cui la parola “donne” è stata sostituita con la frase “corpi con vagine”, fa parte di una tendenza a rimuovere termini sessuati come “donne” e “madri” dalle discussioni sulla riproduzione femminile».
Una tendenza che, anche a voler credere a chi afferma che l’utilizzo di termini “non sessuati” sia una forma di delicatezza nei confronti delle persone che non si sentano a proprio agio con il sesso biologico di nascita, nella realtà mette all’angolo e squalifica tutti gli altri, e in particolare le donne.
«Sesso (una categoria riproduttiva), genere (un ruolo sociale) e identità di genere (un senso interiore di sé) non sono sinonimi», continua il testo, «il sesso è importante per la riproduzione, poiché ci sono solo due gameti e percorsi puberali verso l’età adulta e la produzione di gameti, e solo un tipo di corpo che produce gameti che rimane incinta».
E se «il desexing del linguaggio riproduttivo femminile è emerso come accomodamento […] tuttavia, va tenuto presente che le donne incinte e in fase di parto, le neomamme e i loro bambini presentano vulnerabilità uniche e richiedono protezione», come affermano per altro l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo («maternità e infanzia hanno diritto a cure e assistenza speciali») e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo.
Una lista infinita di fantasiosi “sinonimi”
Invece, continua lo studio, sostituire i termini che indicano la donna e la madre con arzigogoli fantasiosi mina la sicurezza e la protezione di cui essa dovrebbe godere di diritto. Indicare le donne in relazione alla gravidanza come «individui con vagina», «persone che allattano», «famiglie che partoriscono», nel malinteso tentavo di non “offendere” (e da cosa?) per esempio le persone biologicamente femmine che si sentissero maschi, mette in pericolo tutte le altre.
La lista di definizioni coniate dal desexing del linguaggio lascia di stucco chi la leggesse, ma preoccupa fortemente gli addetti ai lavori, in particolar modo infermiere e ostetriche.
I rischi per madri e figli
Le conseguenze di tali cambiamenti del linguaggio elencate nel documento sono numerose.
Essi «diminuiscono l’inclusività complessiva», rendendo più ardua la comprensione in ambito sanitario per esempio a fasce vulnerabili della società, che non conoscono perfettamente la lingua del Paese in cui si trovano. «Disumanizzano» il rapporto fra medico e paziente, riducendo la persona a uno stato puramente “meccanico”, al contrario di quanto la pratica medica tenta di attuare da decenni. «Includono persone che dovrebbero invece restare al di fuori», poiché non è corretto presumere di principio che gli interessi di una donna siano in linea con quelli del marito o del partner. «Introducono imprecisione, precludono l’esattezza e creano confusione», in un contesto, quale l’ambito ospedaliero, in cui sono in gioco la salute e la vita umana. «Disincarnano e indeboliscono l’allattamento al seno».
Una violenza inaudita
«C’è una parola per madre in ogni lingua» continua il testo redatto dai ricercatori. «È comunemente la prima parola pronunciata dai bambini ed è forse la parola più antica mai pronunciata. “Madre” ha un significato che va al di là di quello di “genitore femminile” e contiene le connotazioni di “nutrire”, “allevare”, “amore”, “responsabilità” e “educazione dei figli”, che sostengono l’importanza delle madri per i figli. Quando si desidera minare la relazione madre-bambino, le madri possono essere descritte in modo diverso». Sono parole che danno i brividi e che delineano una prospettiva per il futuro che non è per nulla rassicurante.