Davanti al tribunale distrettuale di Varsavia-Praga, in Polonia, l’8 aprile si è aperto il processo contro Justyna Wydrzyńska, l’attivista per l’accesso universale all’aborto che ha fornito pillole abortive a una donna vittima di violenza domestica. L’imputata rischia fino a 3 anni di prigione.
Il fan club dell’aborto
Quando il marito della donna a cui la Wydrzyńska ha fornito i preparati abortivi ha sporto denuncia, la polizia ha confiscato i fondi dell’attivista ed è stato avviato un procedimento giudiziario.
L’udienza è iniziata alle 10 del mattino del giorno 8, mentre all’esterno dell’aula giudiziaria gli attivisti pro-aborto inscenavano una manifestazione fra striscioni con la scritta «Come Justyna» e slogan quali «Onore e gloria agli abortisti!» e «L’aborto era, è e sarà». In aula l’imputata è entrata accompagnata dagli attivisti di «Aborcyjny Dream Team», sì, “il dream team dell’aborto” che sul proprio sito web si descrive così: «Siamo un’iniziativa informale per de-abortire l’aborto. Vogliamo parlare dell’aborto normalmente, senza tabù, senza drammi, senza travisamenti, senza paura. Viaggiamo per la Polonia e parliamo dell’aborto farmacologico e di altri metodi per interrompere la gravidanza. Lo facciamo perché è importante e necessario. Il nostro obiettivo è diffondere la conoscenza del metodo abortivo farmacologico e promuovere messaggi positivi sull’aborto basati sulle esperienze reali delle persone che hanno abortito e di chi le sostiene».
Lo scontro preliminare
Il caso inevitabilmente sta suscitando grandi emozioni. Sul “caso Wydrzyńska” si sta già addirittura preparando un documentario.
In aula era presente anche Jakub Słoniowski, consulente giuridico, membro dell’Istituto Ordo Iuris, organizzazione nota per il proprio impegno pro-life, in difesa dell’interesse pubblico. In Polonia, infatti, una «organizzazione sociale», spiega un comunicato stampa dell’Istituto, «può partecipare a un procedimento se è in gioco la protezione di un interesse sociale o individuale che rientri negli scopi statutari di detta organizzazione, in particolare se è in gioco la difesa delle libertà e dei diritti umani».
Contrari si sono però subito detti gli avvocati della Wydrzyńska, sostenendo che nel caso in esame non esiste parte lesa giacché un «feto» non può essere riconcosciuto come «soggetto di diritti umani». Né, secondo quei legali, le parti lese possono essere persone vicine al bambino concepito. Dunque, a loro avviso, è impossibile parlare di interesse individuale della vittima o delle vittime e nemmeno di interesse pubblico.
Ma Słoniowski ha ribattuto con chiarezza, sottolineando l’interpretazione lacunosa fornita dagli avvocati della difesa dell’articolo 152 §2 del Codice penale polacco, unica origine del grave fraintendimento secondo cui un bambino non ancora nato non godrebbe di diritti umani.
Il dibattimento
Ovviamente la Wydrzyńska si è dichiarata non colpevole dell’accusa contestatale, dicendo di essere semplicemente venuta a conoscenza del fatto che una donna volesse interrompere la gravidanza. «Sono stata informata che una donna implorava aiuto», ha detto, «perché, se non lo avesse ottenuto, avrebbe “fatto agito contro a se stessa”. Questo è ciò che ho letteralmente sentito. Sono stata informata anche del fatto che questa persona era coinvolta in una relazione molto violenta».
Dicendosi scioccata da queste parole, l’imputata ha commentato: «È tutto molto simile alla mia vita privata. Ho sperimentato anche io la violenza, non solo psicologica, bensì pure fisica».
Sostenendo di non avere voluto che la donna usasse metodi abortivi che potessero risultare pericolosi per la sua salute, una volta lasciata l’aula la Wydrzyńska ha precisato: «Non mi pento di quanto ho fatto. Mi piacerebbe che le persone potessero sostenersi l’un l’altra, che potessero condividere le pillole, che potessero stare insieme. Spero che questo caso costituisca una svolta e che il fatto di condividere le pillole abortive sia un riflesso di empatia e di comprensione per i bisogni di un altro essere umano».
La corte ha fissato la prossima udienza al 14 luglio.
L’aborto è un reato
Per la legge oggi vigente in Polonia, l’interruzione volontaria della gravidanza è un reato, inquadrato dall’art. 152 del Codice penale. La disposizione recita:
§ 1. Chiunque, con il consenso della donna interessata, ne interrompa la gravidanza violando la legge è punibile con la reclusione fino a 3 anni.
§ 2. Chiunque assista o induca una donna incinta a interrompere la gravidanza violando la legge è soggetto alla stessa pena.
§ 3. Chiunque commetta l’atto specificato nei § 1 o 2, quando il bambino concepito ha raggiunto la capacità di vita indipendente al di fuori del corpo della donna incinta, è soggetto alla pena della privazione della libertà per un periodo compreso tra i 6 mesi e gli 8 anni.
In Polonia l’aborto è infatti permesso solo nel caso in cui la gravidanza minacci la vita o la salute della madre e quando vi è fondato motivo di ritenere che la gravidanza sia il risultato di un atto illecito.
Ma il processo Wydrzyńska è solo l’ennesimo tentativo messo in campo per scardinare la legge sull’aborto, in una lotta lunga che ha conosciuto una nuova vampata dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegale l’aborto eugenetico nell’ottobre 2020.
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