Last updated on Novembre 24th, 2022 at 04:26 am
«Prof, posso farle ascoltare una canzone?». I miei studenti sanno che raramente riesco a dire di no: in ogni canzone che mi portano c’è sempre lo spunto per qualcosa di grande, un “gancio” che mi permette di collegare i contenuti del testo di storia della filosofia, in modo più immediato, alla loro vita. «Questa parla di un argomento un po’ controverso». Ottimo! Mentre sulla LIM i ragazzi cercano la canzone, corro a scovarne il testo. Parte la musica: si tratta di Buona nottedel rapper Ernia. Quasi non sento le prime note, sono troppo concentrata a leggere, poi in un istante tutto si trasfigura. Non sono più alla cattedra, non sono più in classe: le parole che leggo si fondono con quelle che ascolto, e con il turbinio di immagini che mi attraversano la mente.
«Prof, le serve un fazzoletto?». Sì, sto piangendo. Davanti ai ragazzi. D’altra parte, come si può non piangere, ascoltando un ragazzo – immagino che tal Ernia sia parecchio più giovane di me – un papà, mentre canta la ninna nanna al suo bambino mai nato?
«Certe notti invento storie da dire
Per distrarla, perché mamma ha certi crolli d’umore
Se dovessi ritrovarmi a prendere una decisione
Lo terrei perché non vorrei rivederla soffrire
Ma quando dormo puoi parlarmi nei sogni
Chiedermi di noi se hai dei dubbi irrisolti
Ti dirò di ciò che è stato e che sarà
Ora fai la buonanotte, dormi nei pensieri di papà».
E adesso qui, davanti alla classe, con gli occhi ancora umidi e quel po’ di imbarazzo del trovarsi totalmente allo scoperto, penso ad Alessandro che ci ha fatto ascoltare questa canzone: perché me l’ha proposta? Si sarà immedesimato? Pensa che potrà capitare anche a lui? Si chiede cosa significhi diventare padre, e se avrà lui il coraggio che ad altri è mancato?
Mi ricompongo, perché è giusto che l’emozione, che non solo io ho provato, ci conduca sulla strada del giudizio. Non posso non pensare al tema che avevo appena finito di trattare in classe: cos’è la realtà?. Non posso non partire da lì: ecco cos’è la realtà, un uomo (un ragazzo?) che raccontando uno degli eventi più drammatici della vita di una coppia, chiama le cose con il loro nome, senza mentire, senza banalizzare, senza fingere. La canzone di Ernia, che lui lo faccia consapevolmente oppure no, racconta di un uomo e di una donna, di una mamma e di un papà, che hanno scelto di non far venire al mondo il loro bambino, e lo fa con un durissimo realismo doloroso, di un dolore sordo, che esplode davanti alla confessione delle loro motivazioni.
«La paura di sbagliare, sai paralizza la scelta
Perdonami davvero, ma se abbiamo preso questa
È stato anche per non doverci ritrovare ostaggi della stessa».
Spogliata da tutte le narrazioni ideologiche e falsamente melodrammatiche, la scelta di non accogliere il proprio bambino viene qui affrontata nella sua ragione più cruda e più profonda: la paura. La paura di sbagliare. La paura di non poter tornare indietro, perché quando nasce un figlio ci si dovrà fare i conti per sempre. E anche la paura della vita, perché
«la vita è una condanna
O almeno così sembra se hai il vizio di raccontarla
Ti levano la gioia giusto fuori dalla pancia
Dopo corri tutta quanta una vita per riacciuffarla».
Così Ernia parla della vita al suo bambino, che la vita non la vedrà mai. Quel bambino che non è tra le sue braccia, ma cui si trova a dire
«ma quando cerchi me e cerco te
Tu lo sai, dove potrai trovarmi
Nei miei sogni, che poi
È lì che vedo te e vedi me, come vuoi».
Perché la realtà, Ernia ce lo testimonia, è che quel bambino esiste, come è esistito mentre era nel ventre di sua madre, permane nell’essere anche se non è venuto alla luce. E suo padre ne è così certo, da invocare proprio lui, così minuscolo, innocente e impotente, nella dichiarazione della propria completa impotenza, di fronte allo strazio della madre:
«non so esser così forte
Tu falle far la buonanotte».
Le lacrime tornano a scorrere, pensando a quanto enorme sia la verità di queste parole: per questi genitori, per sempre ostaggio della scelta compiuta, l’unica speranza di «fare buonanotte» è proprio nell’essere di quel bambino, nel suo perdono. E sale la rabbia, pensando ad una cultura – la nostra – che nelle sue narrazioni sottolinea sempre e soltanto il “peso” della presenza, esaltando il valore di quella che è e resterà sempre, oltre ad un omicidio, una ineluttabile mancanza, quella del bambino rifiutato. Negando e rigettando, così, il dolore delle madri. E dei padri.
Guardo la classe. Anzi, guardo uno per uno i volti dei miei ragazzi, domandando che nessuno di loro debba mai affrontare un’esperienza del genere: siamo capaci di dare loro la speranza di cui hanno bisogno? Mentre spiego loro la Seconda Rivoluzione industriale, mentre racconto di Fichte e Schopenhauer, si accorgono che la vita, per me, non è «una condanna»? Che guardando loro, quasi come quando guardo ciascuno dei miei figli, intravvedo nei loro occhi quel dirompente desiderio di felicità e di vita, per cui posso solo implorare che trovino la loro strada per una risposta?
Il nuovo album di Ernia si intitola Io non ho paura, eppure, tra una Bella fregatura e Qualcosa che manca, sembra proprio il contrario. La lezione finisce, ma non la sfida: argomento della lezione, la speranza, perché nessun padre abbia più paura e sappia sostenere ogni madre, nell’accogliere il loro bambino, nella certezza che «nulla può mai impedire di dare alla luce un figlio».
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