Last updated on Luglio 30th, 2020 at 03:57 am
In un’intervista televisiva Marlena Malag, il ministro polacco per la Famiglia, il lavoro e le politiche sociali, ha affermato che Varsavia potrebbe ritirare l’adesione alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa.
La Convenzione di Istanbul, nota anche come Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, sta di fatto tentando di fare dell’ideologia gender e del femminismo radicale una norma vincolante di diritto internazionale.
La Polonia ha ratificato la Convenzione nel 2015 con diverse riserve e dichiarazioni. Nello specifico ha stabilito che il documento avrebbe trovato applicazione solo ed esclusivamente in accordo alla Costituzione polacca. Ovvio: in fine dei conti nessun governo può ratificare un trattato internazionale che contrasti con la Costituzione del proprio Paese. Ma la reazione è stata netta, con Austria, Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Svizzera che hanno obiettato, e tutti negli stessi termini.
A quanto pare esprimere riserve non è sufficiente. Oggi chi appoggia ideologie che minacciano la famiglia naturale e addirittura la biologia umana sfrutta attivamente la Convenzione di Istanbul nel tentativo di rifare radicalmente la società.
Ora, al canale televisivo Trwam la Malag ha dapprima accennato ad alcune riserve alla Convenzione, citando con vaghezza alcuni cambiamenti legislativi a cui il proprio dicastero avrebbe lavorato di concerto con il ministero della Giustizia.
Ma poi, rispondendo a una domanda diretta con cui le è stato chiesto se la Polonia intendesse condannare la Convenzione di Istanbul, cioè ritirarsi, il ministro ha replicato: «In verità la Polonia sta predisponendo alcuni cambiamenti dopo avere già protestato e avere già espresso le nostre posizioni in preparazione della condanna che avverrà quando avremo concluso le consultazioni con il ministero della Giustizia». Del resto il ministro ha pure aggiunto: «Se ne è già discusso oggi al ministero. Attendiamo le proposte dei ministri e le indicazioni che emergeranno saranno sottoposte al governo e quindi la legge andrà al parlamento».
Pochi giorni prima due Ong polacche, il Christian Social Congress e Ordo Juris, avevano lanciato la campagna «Sì alla famiglia, no al gender» che fra gli obiettivi principali ha proprio la condanna della Convenzione di Istanbul.
Ancora prima, in maggio, il viceministro della Giustizia, Martin Romanowski, aveva già esercitato pressioni per la condanna del documento con un tweet in cui aveva scritto: «Non si combatte la violenza insegnando ai ragazzi che possono indossare vestiti da femmina e giocare con le bambole», a cui ha aggiunto che la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’esecutivo polacco precedente, era pura «propaganda neo-marxista che sovverte i nostri valori».
In un altro tweet il ministro ha aggiunto: «La Convenzione di Istanbul indica nella religione la causa della violenza contro le donne. Noi condanniamo questo “gergo gender”. […] Non siamo interessati alle opinioni degli altri Paesi. Il nostro fondamento è la sovranità dello Stato-Nazione».
Vale peraltro ricordare che se la Convenzione di Istanbul prende il nome dal luogo, la capitale turca, dove gli Stati aderenti l’hanno firmata nel 2011, sin dall’inizio il mondo pro family e le comunità religiose di vari Paesi europei l’hanno criticata per il modo smaccato con cui mira a imporre l’ideologia del femminismo radicale.
Nel Preambolo, per esempio, si afferma che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione».
Oltre a ciò, il documento definisce il «gender» come «ruoli […] socialmente costruiti», cosa che significa che i Paesi che vi aderiscono sono in realtà costretti a considerare l’ideologia gender come «legge»: la medesima ideologia, cioè, in base alla quale ciascuno può scegliere la propria “identità di genere” e considerarsi “uomo” o “donna” a prescindere dal proprio sesso biologico. La Convenzione impone altresì agli Stati membri di cancellare «pregiudizi, abitudini, tradizioni» basati sui «modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini». E gli «stereotipi» possono essere, per esempio, le idee sul ruolo che tradizionalmente hanno mamma e papà, o magari il dovere che un uomo ha di difendere la propria patria.
Né la Convenzione si ferma qui. Prevede infatti anche una formazione specifica per i bambini, che includa la spiegazione di «ruoli di genere non stereotipati». Ora, strettamente parlando, un genitore che rifiutasse l’indottrinamento gender delle proprie figlie verrebbe accusato da quel documento di «violenza». Ecco perché Varsavia si ribella.
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