Le competizioni sportive suddivise per sesso sono destinate a sparire? È lecito porsi il quesito leggendo le ultime linee guida stabilite dal Comitato olimpico internazionale (CIO) sulle persone transessuali. Il nuovo decalogo, che dovrebbe diventare vincolante per tutte le Federazioni nazionali dopo i Giochi olimpici di Pechino 2022, parte da una premessa condivisibile e quasi pleonastica per giungere poi a conclusioni alquanto discutibili.
Le nuove linee guida
«Ogni individuo», si legge, «ha diritto a praticare sport senza subire discriminazioni, in rispetto della salute, della sicurezza e della dignità personale». Tutto corretto, si direbbe. E ancora: «Chiunque, a prescindere dall’identità di genere, dal sesso e dalle sue possibili variazioni, ha diritto a partecipare alle competizioni sportive». In questo secondo passaggio, a parte la sinistra distinzione tra identità sessuale e identità di genere, si allude genericamente a «possibili variazioni»: come se la biologia fosse un accessorio che si può indossare e cambiare a piacimento. Ed ecco poi il passaggio centrale delle linee guida: «Gli atleti e le atlete potranno scegliere di gareggiare nella categoria che meglio rappresenta il loro genere d’elezione. Nessun atleta, che sia uomo, donna o in condizione di transizione tra l’uno e l’altro sesso potrà essere sottoposto a test medici che verifichino il genere d’appartenenza».
Stop ai test del testosterone
La svolta, rispetto alle precedenti linee guida del 2016, è proprio questa: la scomparsa del test del testosterone e altri esami medici per determinare la categoria d’appartenenza. I quali, seppure contestati da uno studio pubblicato su Sports Medicine e ripreso dal quotidiano britannico The Guardian, rappresentavano un paletto che viene ora divelto lungo la strada che porta all’indifferentismo sessuale. Un po’ come accade in certi posti per l’utilizzo dei bagni gender free: basterà autodefinirsi di sesso opposto a quello proprio biologico. Spetterà alle singole Federazioni stabilire se si verifica un eccessivo vantaggio per l’atleta che chiede di cambiare categoria.
Le critiche
Non sono mancate voci critiche È il caso dell’ex nuotatrice britannica Sharron Davies, medaglia d’argento nei 400 metri alle Olimpiadi di Mosca del 1980, che oggi ha intrapreso una battaglia per farsi assegnare l’oro, dal momento che fu battuta da un’avversaria della Germania dell’Est che ha successivamente ammesso di aver assunto sostanze dopanti. La Davies ha usato toni forti: «Dopo due decenni in cui il Cio ha ignorato la situazione della DDR deludendo le atlete, siamo di nuovo di fronte a un vigliacco passaggio di responsabilità».
Critico anche Joanna Harper, medico e trans, consulente del CIO. Che ammette: «Le donne transgender sono in media più alte, più grandi e più forti delle donne cis», ovvero cisgender, le donne biologicamente tali, «e questo rappresenta un vantaggio in molti sport». Secondo Harper, «è anche irragionevole chiedere alle Federazioni sportive di effettuare una ricerca solida e sottoposta a revisione paritaria prima di imporre restrizioni agli atleti trans nello sport d’élite. Tale ricerca richiederebbe anni se non decenni». E chissà se tra qualche anno, decennio, di questo passo, non verranno eliminate le categorie femminile e maschile nello sport.