Last updated on Gennaio 5th, 2022 at 07:19 am
Nel Medioevo, quel tempo di luce, il calendario non era un dogma. Lo scorrere del tempo, infatti, era segnato diversamente da come lo segniamo oggi, anzitutto perché era concepito diversamente da come lo concepiamo oggi.
Oggi, per lo più, il tempo ci scivola addosso. Sfugge. Finisce presto nel tombino come il rigagnolo di melma che si porta appresso il povero soldatino di stagno. Non riusciamo ad afferrarlo e i nostri minuti presenti trascorrono nel rimpianto di quelli passati senza accorgerci che quelli futuri già non sono più.
Così è diventato dogma ammazzare l’anno vecchio, e gioirne, anzi dare persino fuori di matto, in attesa dell’anno nuovo, che però sarà pure esso presto vecchio, e a cui toccherà la stessa fine. Un anno nuovo prossimamente vecchio che sotterra quello vecchio fu nuovo in un consumo continuo che ritma come dogmaticamente migliore quello che viene dopo solo perché viene dopo, né potrebbe essere altrimenti, per poi dire la medesima cosa quando la novità sarà incanutita e prossima alla tomba.
La luce del Medioevo, invece, dei giorni segnati sul calendario se ne infischiava perché non era tanto lo scorrere che interessava quanto invece lo stare. Viveva cioè, il Medioevo, di tempi forti, e tali perché liturgici, i quali erano liturgici proprio perché forti.
Era una cosa maschia e laica, e dunque per questo andava benone anche alle femmine e ai religiosi. Scandire il tempo per pietre miliari. Pasqua, Natale e Festa dell’Incarnazione (quella che si ricordano ormai in pochi), per esempio.
Il calendario forte e luminoso, maschio e femmina, laico e religioso del Medioevo insomma variava. L’anno nuovo poteva coincidere cioè con l’Incarnazione/Annunciazione o con il Natale. Non lo scorrere del tempo era dogma, bensì altro. Persino la Pasqua poteva essere Capodanno, e lì la mobilità del calendario si faceva persino vorticosa.
Tutto questo per uno e un solo motivo. Non è il tempo che conta, ma la sua qualità. Sì, è una frase fatta. Ma come tutte le frasi fatte (questa compresa) racchiude saggezza e verità (altra frase fatta, dunque saggia e vera).
Diciamola diversamente. Dal giorno stesso in cui veniamo concepiti il nostro è un conto alla rovescia verso la morte. Ogni secondo, minuto, ora, giorno, settimana, mese, anno che passa la morte si fa più prossima. La nostra esistenza è un filo che si accorcia raggomitolandosi su se stesso in una palla finché tutto sarà avvolto e il filo esaurito. Noi lo tiriamo, quel nostro unico filo, lo tendiamo, ma più lungo di quello che è non diventa, e nemmeno ferma il proprio avvoltolarsi. Continua, inesorabile.
Tutto ciò che ci tocca fare, dal momento stesso in cui veniamo concepiti, è allora usare quel tempo. Abitarlo, non solo viverlo. E poi adoperarlo, sfruttarlo affinché il nostro countdown non finisca in un eterno lockdown.
Il tempo cairologico, quello fatto di momenti forti, scandisce tempi, fasi, sessioni. Il tempo soltanto cronologico scorre, mentre quello cairologico sta. Incrocia il divenire con ciò che permane imperituro e immutato. Per questo i medioevali, che avevano visto la luce, contavano il tempo in modi sghembi e però mai disassati, diversi sempre senza curarsi mai della confusione (degli altri) perché non sta lì il punto.
Il punto è invece la meta a cui tieni fisso lo sguardo mentre vedi il filo raggomitolarsi e lo spazio a tua disposizione ridursi. La differenza fra l’attesa e il terrore è tutta lì. Le feste forti servivano come segnacoli della meta. Visibile persino nelle nebbie più fitte appoggiate sul grande mare ignoto.
Natale è trascorso da una settimana sola. In termini medievali nulla. È lo stesso momento. Un tempo, presso alcuni usi, il Natale segnava cairologicamente l’inizio dell’anno nuovo. Oggi è l’ultimo dell’anno, l’ultimo giorno del 2021. Io adesso sposto le lancette del mio calendario, giusto per non smarrire il mio filo che si sta raggomitolando inesorabile, quel po’ di filo che ancora mi resta. Buon Natale perenne a tutti.
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