Padre Carlo Casalone SJ si dichiara contrario a eutanasia e suicidio assistito. Ed è favorevole alle cure palliative. Giusto. Piccolo particolare: è favorevole alla Legge 219/2017 sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, di cui addirittura lamenta l’applicazione fallimentare. E anche il suo concetto di mediazione e di compromesso è molto sfumato e ambiguo.
Nel corso di un webinar sul tema Il dibattito su eutanasia e assistenza al suicidio, promosso dalle fondazioni Ambrosianeum e Matarelli, il padre gesuita ha espresso anche concetti condivisibili, vanificati, però, da altre affermazioni che si arenano in un pantano di ambiguità. Del resto il bioeticista si era già prodotto in un intervento irricevibile pubblicato sulle pagine dell’autorevole La Civiltà Cattolica, oggetto di forti reazioni e polemiche, e dell’indigazione di «iFam News».
Attualizzare Ippocrate?
Ora, il rilancio della «logica del dialogo» e dell’«ascolto delle ragioni dell’altro», così care ai gesuiti (padre Casalone è presidente della Fondazione Carlo Maria Martini), fornisce sì un assist alle ragioni della sacralità della vita e alla «soggettività del malato», al giorno d’oggi schiacciato dalla «logica oggettivante» di una medicina sempre più «tecnologica» e umanamente fredda, che guarda più all’«organismo» che non alla «malattia vissuta».
Oggi, insiste padre Casalone, viviamo una medicina immersa nell’«impresa scientifica e tecnologica»: un quadro complesso in cui il rapporto medico-paziente è condizionato da pesanti e invadenti sovrastrutture, che, di certo, a suoi tempi, Ippocrate (460-377 a.C.) non poteva prevedere. Ma, dice, alla luce di un quadro così mutato «Ippocrate esige una reinterpretazione», e qui il gesuita inizia a calpestare un terreno minato: l’avanzata eugenetica degli ultimi 30-40 anni è dovuta, tra le altre cose, proprio a un’eclissi dell’ippocratismo. Come riattualizzare allora il «primum non nocere»? È possibile attualizzare Ippocrate senza snaturarlo? A queste domande implicite, padre Casalone non risponde.
Sicuramente corretta è la sua analisi analisi sulla medicina che, progredendo, scopre i propri «limiti», in particolare quando l’allungamento dell’età media presenta un conto da pagare che è quello del proliferare delle patologie della senescenza. Di fronte a scenari di malattie croniche e inguaribili, osserva Casalone, la medicina ha dovuto ricorrere alle cure palliative, che peraltro non sono certo una «sconfitta» quanto una «conversione». Non sbaglia, del resto, padre Casalone, quando afferma che «la Chiesa partecipa al dibattito della società in cui abita», quindi, anche in ambito medico-scientifico, «i credenti non sono la “controparte” della società civile» ma ne rappresentano una componente con la stessa dignità delle altre.
Biotestamento «ampiamente disatteso»
Di seguito, però, il gesuita inciampa di nuovo: vi sono due leggi, dice, a oggi pressoché inapplicate. Una è la 38/2010 sulle cure palliative e fin qui nulla quaestio. L’altra è la 219/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento: padre Casalone lamenta che questa legge sia stata finora «ampiamente disattesa», avendo fatto «biotestamento» soltanto lo 0,7% dei cittadini. Eppure, si tratta di una legge dai contorni palesemente eutanasici, che si presta ad evidenti manipolazioni: piuttosto comprensibile, quindi, che il 99,3% degli italiani non vi abbia fatto ricorso. Qui, piuttosto, l’unica cosa che stupisce davvero è proprio padre Casalone.
Venendo all’attuale discussione in corso alla Camera dei deputati sul cosiddetto «suicidio assistito», l’oggetto del contendere è rappresentato dal diritto del paziente a «non soffrire», cui vengono incontro le già menzionate cure palliative, osserva padre Casalone. Il gesuita sottolinea oppottunamente l’equivocato principio di «autodeterminazione» rispetto al quale l’impostazione prettamente «individualistica» dei Radicali tralascia un «aspetto importante: l’esercizio della mia libertà può avvenire soltanto in una dinamica relazionale». Ciò sta a significare che «la vita la ricevo», quindi «la decisione sul mio corpo non è solo mia ma riguarda anche la comunità»; non si può allora pensare alla vita umana come un «oggetto su cui decido come se non avesse alcuna ricaduta sugli altri».
Bene. Quel che però padre Casalone omette di dire è che il valore della vita non si misura esclusivamente in relazione alle altre vite, ma è un bene assoluto in sé. I due concetti non si escludono vicendevolmente, al contrario si integrano: ma bisogna dirlo esplictamente, soprattutto in tempi di frontiera e di sotterfugi come quelli in cui viviamo.
«Elaborazione condivisa»: ma di che tipo?
Lo studioso gesuita lamenta che, effettivamente, negli ultimi anni «sono cresciuti i casi di eutanasia involontaria e di sedazione palliativa senza consenso». Si è quindi arrivati a un paradosso: «In nome dell’autodeterminazione si va a comprimere l’esercizio della libertà specie per coloro che sono più vulnerabili». Questa deriva legislativa, ha ricordato Casalone, si è particolarmente consolidata in Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, coinvolgendo più di recente la Spagna e ora anche Francia e Germania.
Venendo allo scenario italiano, Casalone cede alla realpolitik e dice: «Si può tentare di arginare la deriva aderendo a quella sentenza della Corte Costituzionale», la 242 del 2019, «dalla quale non si può più recedere». Il punto, secondo il gesuita, «non è realizzare compromessi in cui si cerca di mercanteggiare con l’avversario il minimo possibile», quanto «cercare un’elaborazione il più possibile condivisa».
Qual è, però, la differenza tra «compromesso» ed «elaborazione condivisa»? È significativo che, proprio nell’introduzione del webinar, l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, abbia messo in guardia proprio dal «compromesso» e dalla «sindrome del predestinato alla sconfitta» che ogni tanto s’impadronisce di qualche pro-lifer, dal divorzio fino alle cosiddette «unioni civili».
Padre Carlo Casalone fa insomma emergere la nemesi in cui cadono i “cattolici del dialogo”: l’esercizio del “creare ponti” perde presto lo slancio idealista della prima fase e si traduce in una mera accettazione dell’ordine esistente, accompagnata da bizantinismi e da silenzi eloquenti.
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