Stephen Breyer, uno dei nove giudici a vita della Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America, ha annunciato le dimissioni.
Breyer, californiano, nato nel 1938, nominato a quell’augusta assise nel 1994 dal presidente Bill Clinton, appartiene allo schieramento liberal. Ora comincerà il rito della sua sostituzione, ma il successore di Breyer sarà altrettanto liberal, visto che è prerogativa del presidente degli Stati Uniti nominare i candidati, e compito del Committee on the Judiciary del Senato federale, informalmente detto «Senate Judiciary Committee», confermare o bocciare la candidatura, e visto che oggi la Casa Bianca ha fatto della lotta ai princìpi non negoziabili la propria bandiera, sia internamente sia all’estero, volendo addirittura trasformare la non-illegalità dell’aborto, decisa nel 1973 dalla stessa Corte Suprema con la sentenza che chiuse il caso Roe v. Wade, in piena legalizzazione mediante una legge del Congresso voluta con una protervia che ha dell’incredibile.
Anzi, un successore di Breyer persino più liberal di Breyer, visto che la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, potrebbe avere presto l’occasione storica per ribaltare la sentenza del caso Roe v. Wade, nonché un successore certamente più giovane, che per l’Amministrazione Biden sarebbe un importante investimento a lungo termine.
Ma la buona notizia è che, sostituendo un liberal della minoranza liberal nella Corte Suprema con un altro liberal, i liberal nella Corte Suprema restano minoranza.
Potrebbe però esserci persino di più. Ovvero potrebbe anche verificarsi lo scenario opposto.
Se infatti, sulla carta, come testé detto, Biden desidererebbe certamente nominare un giudice ancora più liberal di Breyer, all’atto pratico Biden potrebbe essere costretto a mordere il freno, nominando sì un liberal, ma non così estremista come sarebbe per lui coerente fare e come sicuramente vorrebbe.
Perché? Perché la conferma delle nomine presidenziali passa, come detto, dal «Senate Judiciary Committee», il quale, se ritiene il candidato presidenziale idoneo, lo sottopone al voto dell’intero Senato federale. Ora, il Senato è oggi spaccato in due metà esatte (e il «Senate Judiciary Committee», 21 membri, ne riflette la composizione): 50 Democratici e 50 Repubblicani.
Nel caso un voto rispecchiasse questa parità, risultando altrettanto pari, decisivo sarebbe il voto del presidente del Senato, che, da Costituzione federale, è il vicepresidente degli Stati Uniti, alias la vice di Biden, Kamala Harris. Ma solo, appunto, qualora il Senato, su un voto, si spaccasse rigidamente in due metà esatte su linee strettamente di partito. E non è detto però che lo faccia. Non è detto, cioè, che lo faccia sempre. Non è detto, insomma, che lo faccia automaticamente su questioni che riguardano la coscienza e la coerenza, la scienza e la morale. Insomma, non è affatto detto. E le attuali difficoltà dei Democratici (in teoria sempre vincenti, avendo dalla propria parte la Harris) a raggiungere sempre e comunque 50 consensi (i 50 consensi utili a vincere sfoderando l’asso Harris), lo dimostrano bene.
Il successore di Breyer dovrà quindi passare per queste forche caudine e potrebbe pure darsi che, qualora fosse molto, molto liberal, possa finire per restarci impigliato. Biden potrebbe cioè essere costretto sul serio a una nomina più moderata, la quale, a propria volta, una volta eventualmente diventato giudice della Corte Suprema, su questioni di coscienza e di coerenza, di scienza e di morale, potrebbe magari riservare qualche sorpresa.
E non è ancora finita. Perché la tempistica delle dimissioni di Breyer qualche interrogativo lo desta.
Solo qualche mese fa Breyer diceva di non avere alcuna intenzione di ritirarsi. Perché allora questo repentino cambio di idea? Qui di certezze ce n’è una soltanto: l’8 novembre gli Stati Uniti celebreranno le elezioni «di medio termine» che rinnoveranno un terzo del Senato federale e tutta la Camera federale dei deputati. Se i Repubblicani vincessero in novembre, la composizione del Senato cambierebbe e per i Democratici eleggere un giudice liberal diventerebbe arduo, se non impossibile, per almeno due anni, fino cioè al successivo rinnovo di Senato (tutto) e Camera (un altro terzo), in concomitanza dell’elezione del nuovo presidente del nuovo vicepresidente (e presidente del Senato) degli Stati Uniti.
Ebbene, Breyer ha 83 anni. I Democratici potrebbero non avere un’altra occasione per contare su una maggioranza che in Senato assicuri loro un suo successore liberal: forse ritengono che sia meglio agire intanto che i numeri sono a loro (in teoria) più favorevoli, costringendo Breyer alle dimissioni. Qui la buona notizia è che i Democratici sentono già odore di sconfitta nelle consultazioni per il rinnovo dell’organo che negli Stati Uniti scrive e approva le leggi.
L’ultima certezza è che il 2022 negli Stati Uniti sarà un anno elettorale di cannonate incrociate, con la questione aborto pronta ad accendere le polveri.
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