Starbucks, gay-friendly a scopo di lucro

Vendere, vendere, vendere. Ma perché la comunità LGBT non insorge indignata?

Image from Starbucks Youtube Channel

Last updated on Febbraio 15th, 2020 at 12:18 am

Per la seconda volta in pochi giorni una storia che unisce una ragazzina, un padre, una tazza di caffè. E il marketing. È lo spot dell’agenzia di comunicazione Iris per Starbucks, parte della più ampia campagna #whatsyourname, vincitrice del concorso Diversity in Advertising del canale televisivo britannico Channel 4. In palio c’è un milione di sterline per premiare compagnie e campagne adv finalizzate a promuovere la rappresentanza LGBT+ nelle pubblicità, dopo che una ricerca dello stesso canale ha rivelato che solo nello 0,3 % di esse è presente una persona transessuale.

Lo spot, cool e patinato, presenta alcune scene della vita quotidiana di Jemma, una ragazzina che evidentemente “si sente” maschio, e che pertanto si veste e si atteggia da ragazzino. Viene però sempre chiamata «Jemma»: sul tesserino della scuola, dal medico, quando papà la presenta agli amici. Solo da Starbucks la giovane avverte la possibilità di usare il nome che “sente” proprio e così l’addetto alla cassa scrive «James» sul bicchierone del suo caffè. Logo bene in vista, dissolvenza.

Sul canale YouTube della celeberrima catena di caffetterie, raccolti sotto il claim «Every name’s a story», ci sono alcuni corti in cui persone transessuali raccontano la propria esperienza con ciò che viene definito il deadnaming, il permanere cioè del “vecchio nome” dopo la transizione all’altro sesso.

Manager della compagnia e del network e creativi dell’agenzia fanno a gara nel dichiarare gioia e soddisfazione per questa che pare essere diventata una “battaglia di civiltà”. Ma non è affatto convincente.

Vi si legge piuttosto un interesse di puro marketing che ha la comunità LGBT+ mondiale come target ma anche come strumento, una comunità vista come un enorme portafogli cui attingere, date (a quanto pare) una capacità e una propensione alla spesa superiori alla media. Lo afferma addirittura COM.MA, agenzia che gestisce il network editoriale LGBT più rilevante in Italia e che sul proprio sito ospita una nutrita sezione dedicata al gay marketing: advertising dedicato, di nicchia, tribale.

Del resto, il fenomeno del rainbowwashing, cioè la promozione di «un’attività sociale o di marketing indirizzata a presentare una realtà come gay-friendly allo scopo di aumentarne il consenso presso il pubblico», è già una voce di Wikipedia.

Come nel caso dello spot della compagnia belga Douwe Egberts, lo scopo sembra essere uno solo: vendere. Non vi ovviamente è nulla di male nel promuovere la propria azienda verso i canali e i target considerati più adatti, per propensioni e stili di vita. Ciò che non è accettabile è il bombardamento costante di input, rivolti in modo preponderante ai più giovani, volti a normalizzare e anzi a rendere affascinanti certi stili di vita. E del resto: la comunità omosessuale non si sente sfruttata?

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