Sulla stampa internazionale, nelle ultime settimane, si sono moltiplicate le notizie relative alle «terapie riparative» o «di conversione» dell’omosessualità e al divieto, in alcuni Paesi del mondo, di praticarle, o somministrarle che dir si voglia, usando un brutto termine “tecnico”.
Si tratta come noto di quell’insieme di consulenze di tipo psicologico o di supporto spirituale e religioso, a disposizione delle persone omosessuali che volessero confrontarsi con questo aspetto di sé ed eventualmente preferissero essere aiutate a volgersi verso un orientamento differente, all’eterosessualità. Già in passato e anche in Italia, certamente, vi sono stati scambi accesi rispetto a tali pratiche, oggi però la questione si pone prevalentemente dal punto di vista giuridico. Vi è cioè chi esige il divieto totale di esse, considerate sempre e comunque come «omofobe» e «violente» nei confronti delle istanze e delle persone LGBT+, senza fare la distinzione tra discriminazione e semplice espressione del proprio pensiero o della propria libertà religiosa, rivolti per altro esclusivamente a persone consenzienti che anzi desiderassero esplicitamente questo tipo di consulenza.
Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 il divieto è entrato in vigore in Francia, dove si è seguito l’esempio di Brasile, Ecuador, Malta, Albania e Germania, mentre Canada, Finlandia, Regno Unito, Messico e Spagna stanno elaborando programmi nella medesima direzione.
Nei Paesi Bassi, in febbraio, è stato presentato al parlamento un disegno di legge promosso dai partiti di coalizione Democratici 66 (D66) e Volkspartij voor Vrijheid en Democratie (VVD), insieme ai gruppi dell’opposizione Partij van de Arbeid (PvdA), i Verdi del GroenLinks, Socialistische Partij (SP) e gli animalisti del Partij voor de Dieren (PvdD). La nuova normativa prevederebbe multe fino a 22mila 500 euro e la pena detentiva di un anno, o due anni in caso di recidiva, per chi offrisse «terapie riparative», oltre alla cancellazione da un eventuale albo professionale, per esempio se fossero psicologi o piscoanalisti.
In Israele, contemporaneamente, una circolare emessa dal ministro della Salute Nitzan Horowitz alla metà del mese scorso ribadisce il medesimo concetto e vieta al personale sanitario di offrire, pubblicizzare o condurre tali terapie. La circolare applica in tal senso il disegno di legge approvato nel Paese nel 2020, che prevede sanzioni per i trasgressori, fino alla revoca dell’abilitazione professionale.
Sempre alla metà di febbraio, anche la Nuova Zelanda ha approvato quasi all’unanimità, con 112 voti a favore e 8 contrari, la normativa che vieta le «terapie riparative». Il disegno di legge, presentato dal governo l’anno scorso, fa seguito alla promessa in sede di campagna elettorale del primo ministro Jacinda Ardern. In base ad esso, sarà un reato punito con la reclusione sino a tre anni eseguire pratiche di «conversione», in particolare su bambini o giovani di età inferiore ai 18 anni, o su persone con «ridotta capacità decisionale». Il governo della Nuova Zelanda dichiara che la legislazione stabilisce anche ciò che non è una «pratica di conversione» e «protegge il diritto di esprimere opinioni, convinzioni, convinzioni religiose o principi che non intendono cambiare o sopprimere l’orientamento sessuale, l’identità di genere o l’espressione di genere di una persona».
Difficile però individuare un limite preciso che davvero tuteli la libertà di espressione e la libertà religiosa. Lo dimostra il caso dello Stato del Victoria, in Australia, dove la normativa ricalca quella neozelandese. Sin dall’inizio, infatti, come riferisce Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights, le confessioni cristiane e altre confessioni religiose hanno espresso preoccupazione per il disegno di legge del 2020, noto come Change or Suppression (Conversion) Practices Prohibition Bill. A tema è proprio il rispetto delle libertà e della libertà religiosa in particolare, fermo restando il rispetto assoluto dovuto alle persone LGBT+ come a chiunque altro e l’assoluta contrarietà a pratiche sbagliate, discriminatorie e definite giustamente «da ciarlatani».
Molto diversa, però, è la deriva che si rischia sia celata in talune pieghe della normativa. Pare infatti «[…] di capire che, se una persona LGBT+ […] visita un sacerdote, un pastore o un consulente religioso, chiedendo consiglio sulla sessualità, quest’ultimo abbia il diritto di spiegare in generale che gli insegnamenti della sua religione raccomandano che qualsiasi attività sessuale abbia luogo solo nel contesto del matrimonio monogamico tra uomo e donna. Ma se […] facesse un ulteriore passo avanti ed esortasse il parrocchiano a modificare la propria condotta, ciò potrebbe essere considerato come un cambiamento o una soppressione dell’orientamento sessuale del parrocchiano e costituire perciò un crimine». Come camminare sul filo del rasoio, insomma.
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