Ma papà e mamma sono intercambiabili? È la domanda che sorge spontanea di fronte alla proposta, avanzata dal Sottosegretario al Lavoro e alle Politiche Sociali, Francesca Puglisi, di dare anche ai padri la possibilità di assentarsi dal lavoro per accudire il figlio appena nato. Sul tema, qualche giorno fa, Cristina Tamburini ha scritto su queste pagine un ottimo articolo, spiegando le contraddizioni e i rischi dell’iniziativa. È sintomatico che il provvedimento, per ora solo allo studio, sia stato definito «estensione del congedo di maternità» e non, come sarebbe logico, “congedo di paternità”. Anche i più strenui fautori dell’eguaglianza tra i sessi (non parlo di pari opportunità, che è altra cosa, ma di un’idea di eguaglianza che annulla la differenza sessuale) considerano istintivamente il binomio madre-figlio come inscindibile e usano quindi l’espressione “congedo di maternità” anche quando a occuparsi del neonato dovrebbe essere il padre.
Non sono contraria alla proposta ‒ a patto che il congedo paterno non sia obbligatorio ‒ e non voglio certo dire che un papà non possa cambiare i pannolini e trafficare con biberon e bagnetti, anzi è bene che lo faccia. Questo non soltanto allevia la madre, stressata dal parto e spesso troppo sola, ma aiuta il padre a cominciare a prendere confidenza con la creaturina che è entrata nella sua vita, a entrare insomma in relazione con il figlio. Bisogna però essere chiari: a un bimbo appena nato serve la mamma.
Appena uscito dal nido caldo del corpo materno, abituato alla voce, al battito del cuore, agli odori e ai sapori di chi era un’unica cosa unica con lui, il neonato ha bisogno solo della madre, che è il suo cibo, il suo mondo, tutta la sua sicurezza. Un padre può aiutare, non sostituire. Le competenze materne sono stratificate da una storia millenaria, intrecciate con la biologia e con il corpo, maturate nei nove mesi di gravidanza e nell’evento straordinario della nascita, trasmesse da una catena di saperi femminili che si tramanda da donna a donna in modo perfino inconsapevole. La differenza sessuale non è “una” delle tante diversità che esistono tra gli esseri umani: è “la” differenza che struttura l’esperienza conoscitiva, all’interno di un’antropologia segnata dalla dualità.
La maternità, però, non è mai stata valorizzata nel nostro Paese. Se un tempo era esaltata da un mito strumentale, ormai nemmeno la retorica di “son tutte belle le mamme del mondo” ha più circolazione e credibilità. La maternità è confinata nello spazio delle scelte private, senza valore sociale. Uno dei rischi in cui si incorre oggi è un’ulteriore perdita di senso e di valore, prodotta dall’idea che padre e madre siano intercambiabili, e che un bimbo, in qualunque fase della vita, a qualunque età, abbia bisogno solo di cura e affetto (“basta l’amore”, si dice spesso), poco importa che ad accudire il bimbo sia un uomo o una donna. Si è visto proporre, anche da parte di parlamentari fieramente cattolici, progetti di legge che equiparano madre e padre su ogni piano, con l’idea di difendere il ruolo paterno e la cosiddetta “bigenitorialità”. È esattamente il contrario: questa impostazione indebolisce paternità e maternità, aprendo la strada all’idea che la genitorialità sia semplicemente un diritto individuale, sostanzialmente privo di caratterizzazione sessuale, e che non ci sia bisogno della famiglia.
Benissimo, dunque, dare anche all’uomo la possibilità di vivere la nascita del figlio in modo più presente, stando in famiglia, non abbandonando la madre a fatiche solitarie. Ma si deve tenere ferma un’antica e semplice verità: la mamma, come si diceva una volta, è sempre la mamma.
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