Last updated on Luglio 8th, 2020 at 07:39 am
Noi, come altri, sembriamo corvacci, gente che altro non fa se non pascersi tutto il giorno di notizie pessime per poi ricucinarle in una cronaca sempre uguale a se stessa di nefandezze e orrori assortiti. Un collega (forse l’ho già scritto su queste pagine virtuali) un giorno me l’ha rinfacciato, ma è come quei tali che, non avendo una risposta, spostano, nel tempo e nello spazio, la domanda campando di alibi (ho sempre pensato così di quei mattacchioni che rispondono alla domanda urgente e cogente sull’origine scientificamente inspiegabile della vita sulla Terra attraverso l’escamotage della panspermia). Ovvero, noi mettiamo in pagina quel che il mondo combina: non ne siamo noi la causa, bensì soltanto i cronisti.
Quel che però di vero contiene il rimbrotto di quel collega è che le notizie sono costantemente brutte. Viviamo un’epoca così, difficile. Avendo smesso da tempo di giocare al laudator temporis acti, non m’illudo che non vi siano state epoche della storia parimenti insopportabili e invivibili. O luoghi del mondo. Ma ognuno si lamenta a gran voce dei mali che patisce perché (come diceva una delle figure che considero mio maestro) è proprio lui a patirli, e così gli sembra che i suoi siano i guai maggiori di sempre. E non è solo una percezione: soggettivamente è verissimo.
Ma il Paese guasto in cui viviamo non è pesante da vivere solo soggettivamente: lo è pure oggettivamente.
La storia non ha mai sopportato una violenza tanto cruda scatenata contemporaneamente su un numero tanto ampio di fronti. Il giro mentale, spesso un vezzo, sulla nostra civiltà oramai alla fine mi appassiona ‒ confesso ‒ pochissimo. Vi è ovviamente molto di vero nel dirlo, ma gli è che lo vedo troppo spesso la consolazione (ben magra) dei “te lo avevo detto” in attesa di premio alla carriera, oltre che un esempio di cinismo irrispettoso. La civiltà da cui proveniamo, che, sì, in gran parte abbiamo abbattuto, è un lascito tanto serio che, persino davanti al suo crollo, bisogna portare rispetto: muto, ovvio, e compassato, triste, compunto, ma rispetto. Saltare dalla barca quando affonda resta sempre da topi.
Ora, davanti allo sfascio generale, confesso (è la seconda volta nella stessa pagina) di avere un tempo coltivato l’idea dell’Arcadia perduta, dello Shangri-La nascosto, dello Shambhala incorrotto che doveva per forza esistere in qualche luogo del mondo ancora non contaminato, ché se così non fosse stato, sarebbe stato un torto personale alla mia supponenza. Mentre constato che attorno a me qualcuno ancora soffre dello stesso morbo, la realtà si è incaricata di svegliarmi, mostrandomi che non è più (cioè mai) il tempo dei romanticismi d’accatto. Non vi è oasi felice: il mondo brucia in ogni luogo, e le fiamme crescono sempre più alte.
La tentazione a questo punto è enorme. Smettere. Allinearsi ai profeti compiaciuti della sventura macché imminente, già trionfante. Ritirarsi. Prepensionarsi. Attendere la fine, anzi suspicare che finisca tutto il più in fretta possibile.
Ma è qui che uno riscopre che la sacca di resistenza che immaginava reclusa su un’isola sfuggita alla vista, in un bosco remoto o in una valle occulta ha in realtà altre coordinate geografiche. Quello dello spirito. L’oasi, il bosco, la valle, infatti, esistono, e ognuno di coloro che ha la forza per distinguere ancora il bene dal male le ha dentro di sé sempre. Il mondo non è finito, anche se brucia tutto, perché ci sono persone che sono oasi, boschi e valli di resistenza: rimanessero solo loro, il mondo non sarà ancora finito.
È quello che ho improvvisamente capito di avere sempre saputo ma che mai ero riuscito a formulare in un pensiero lucido quando stamattina Cristina Tamburini ha condiviso con me una propria “scoperta”: la prima ricorrenza del termine «fondazioni» nella narrativa fantascientifica di Isaac Asimov (1920-1992) nel romanzo Fondazione anno zero, secondo dei due prequel del suo famoso ciclo a tema, uscito postumo nel 1993 (nel primo prequel la parola «fondazione», precisa Cristina, ricorre infatti solamente nel titolo). «Ultimamente Yugo aveva accennato al possibile stabilirsi di Fondazioni…», scrive Asimov. «Entità distinte, isolate, indipendenti dall’Impero stesso, che sarebbero servite come semi per la rinascita attraverso le imminenti ere oscure fino alla nascita di un nuovo e migliore Impero». Seminiamo, senza che i cecchini nemici e i prepensionati si accorgano, tutti i giorni. Verrà il giorno, infatti, ed è già (come la chiamava il maestro anonimamente evocato sopra) «nostalgia dell’avvenire».
Commenti su questo articolo