Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:27 pm
«Caro Mario, sostengo la tua battaglia», il quotidiano La Stampa riporta queste parole come incipit della lettera del Ministro della Salute, Roberto Speranza, in risposta all’appello di un uomo di 43 anni, tetraplegico, immobilizzato da 10 anni, che chiede di «poter morire con dignità».
Il Ministro si dichiara pronto a sostenere la battaglia di Mario. Vediamo come: non certo recandosi a casa di Mario, per conoscerlo, conoscere la sua famiglia, verificare fino a che punto l’ASL di competenza stia accompagnando e sostenendo lui e i suoi cari nella loro battaglia quotidiana. Sarebbe stato un evento davvero significativo, il segno che ogni singolo uomo vale per la propria personale dignità e le proprie particolari condizioni, tutte dirette a un unico fine, il compimento umano integrale, la vera felicità, il vero bene.
Una battaglia di carta (da giornale)
Il ministro trova invece comodo rispondere tramite lettera, non già recapitata a Mario e alla sua famiglia, ma pubblicata su un quotidiano: un manifesto pubblico, utile per far parlare di sé e accaparrarsi simpatie. Non certo utile alla situazione particolare di Mario, che è oggi lo stesso di prima, con gli stessi dolori, la stessa sofferenza, lo stesso sfiancamento, che – comprensibilmente – lo porta a dire “non ce la faccio più”. Il ministro Speranza nella sua missiva afferma: sono personalmente convinto da tempo della necessità e dell’urgenza di un intervento legislativo in materia, da ministro ho mantenuto, pertanto, la posizione di principio che su materie come questa non ci possa essere alcuna iniziativa del governo che scavalchi o surroghi il ruolo del Parlamento». Constatato il vuoto legislativo, richiama dunque la sentenza della Consulta del 2019, che ha stabilito alcune condizioni di non punibilità per condotte di aiuto al suicidio. Ora, in base a tale sentenza, Speranza si permette di sollecitare, come sottolinea così chiaramente il Centro Studi Rosario Livatino la «consumazione di quello che resta pur sempre un delitto». Non è chiaro infatti come, mancando una norma che faccia seguito alla sentenza della Corte, i «dipendenti di una ASL possano aiutare al suicidio e non essere sottoposti a un procedimento penale».
Armiamoci, e partite
In questo modo il ministro Speranza, affermando di sostenere la battaglia di Mario, con significativa disinvoltura se ne lava immediatamente le mani, rilanciando la palla al Parlamento – chiamato a legiferare prima possibile – e, drammaticamente, scaricando il barile sulle ASL, che dovrebbero – sempre in assenza di legislazione – «garantire il suicidio assistito». Della serie “armiamoci, e partite”, il ministro non fa neppur vago riferimento, nella sua lettera, all’unico punto che veramente a lui compete, su cui potrebbe – e dovrebbe – agire in prima persona, immediatamente: esiste una legge dello Stato, datata 15 marzo 2010, sulle Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Detta legge si occupa di quelle che l’International Association for Hospice and Palliative Care (IAHPC) definisce come «cure destinate a un paziente fragile ovvero affetto da una malattia inguaribile e cronica». Ora, l’indagine della XII commissione parlamentare della Camera, datata aprile 2019, fotografa in Italia una situazione definita «indegna per un paese civile»: le giornate di assistenza domiciliare garantite, per fare un esempio, sono circa 300mila, cioè 1/10 rispetto allo standard fissato nel 2017 di oltre 4 milioni di giornate. È informato di questo, il ministro? Si rende conto che la situazione di grave dolore in cui la persona e i suoi familiari vengono lasciati soli conduce alla disperazione, a quel «non ce la faccio più» di Mario, non già perché unica via possibile di salvezza, ma come ultimo disperato grido di aiuto, inascoltato? Ha preso in considerazione l’ipotesi di aumentare le risorse stanziate per le cure palliative, la cui competenza è concorrente tra Stato e Regioni? Rendere operativa questa legge, sarebbe il compito di un ministro, che invece ha pubblicamente dichiarato preferire l’eliminazione – l’uccisione – della persona fragile, piegata dal dolore.
Una speranza vera, non manipolazione politica
La battaglia per la legalizzazione dell’eutanasia in Italia è in pieno svolgimento, sia per via parlamentare, sia per via referendaria: il sospetto che un ministro già avvezzo a preferire la morte alla vita abbia colto la palla al balzo, usando della disperazione di Mario, non appare così infondato.
Eppure esistono luoghi in cui si afferma che la vita vale la pena sempre, i malati parlano di felicità e la malattia si trasfigura, da condanna a maestra di vita buona. La sofferenza fa parte dell’umanità – come ricorda la bioeticista Giorgia Brambilla – non può semplicemente essere negata, o allontanata, suggerendo che la morte si trasfiguri, in qualche modo, in un “bene” per chi soffre. Ancor più incomprensibile appare, questo “appello alla morte” in un momento storico in cui si inneggia al «dovere civile» di solidarietà, imponendo limitazioni e trattamenti sanitari a individui sani, al fine di difendere la fragilità: decreti che impongono obblighi a tutti, per preservare i più deboli, quegli stessi che altre leggi permetterebbero di “far fuori”. Accade questo, quando gli individui, per la politica, non hanno alcun valore in sé.